La Città Invisibile - La Gratitudine di Max

Alcune delle fotografie del soldato americano Max Johnston e della sua famiglia, spedite da Indianapolis a Dino nel dopoguerra, come segno di gratitudine per averlo nascosto ed avergli salvato la vita, a rischio della propria, durante la seconda guerra mondiale a Riccione. Nel retro della fotografia che ritrae il figlio di Max, nato dopo il suo ritorno sano e salvo dalla guerra, compare una dedica: "da Jerry Joe Johnston, allo zio più caro, Dino".

Segue un estratto del racconto di Dino, ripreso in due punti, l'inizio e la fine della loro conoscenza, durata 125 giorni, molto rischiosa e rocambolesca in più di una occasione: dal salvataggio di Max, l'unico aviere americano scampato alla cattura tra quelli che erano riusciti a paracadutarsi dopo l'attacco al loro bombardiere, al loro commiato, di seguito alla liberazione avvenuta sulla linea del fronte, dove assieme trascorsero dieci giorni nella terra di nessuno ai piedi delle alture di San Marino.

 

Dino a 22 anni(...) In quel maggio del ‘44 poi avvenne che una fortezza volante americana, dopo aver bombardato Rimini, venne colpita dalla contraerea e andò a schiantarsi, come una palla di fuoco, sulle colline di Gabicce. Gli undici uomini dell’equipaggio si paracadutarono nelle colline della nostra zona, tra Ospedaletto e Mulazzano, e si nascosero in un campo di grano. Da terra videro la scena in molti e un fascista di Pian della Pieve avvertì i tedeschi che arrivarono presto e, dopo aver circondato il gruppo di americani, spararono raffiche in aria per intimorirli e farli arrendere. Tutti, tranne uno. Perché un mio amico riuscì a giungere poco prima e, prendendosi un ferito sulla sua bicicletta, si allontanò appena in tempo. Poi in serata raggiunse il nostro gruppo e ce lo consegnò, perché lo tenessimo al riparo e ci prendessimo cura della sua ferita al piede.
Nacque così il mio legame con Max Johnston, di Indianapolis, sergente maggiore dell’aeronautica americana, con cui restai assieme per centoventicinque giorni. Perché l’abbiamo protetto? Perché era un povero ragazzo. E perché era americano.
E’ vero, era tra quelli che ci bombardavano. Di quegli aerei ne abbiamo visti a migliaia nel cielo, volando con il loro carico di morte. Ricordo che, al loro passaggio, mio babbo spesso parlava di quanta povera gente che non voleva questa guerra, di quanti innocenti, stavano per essere seppelliti da quelle bombe. Ma noi non incolpavamo gli Alleati. Perché quello era il punto al quale ci aveva portato la guerra voluta da Hitler e Mussolini, quella in cui alla fine 55 milioni di persone, in tutto il mondo, avrebbero perso la loro vita. E, giunti a quel punto tragico, sapevamo che ogni americano era dalla nostra parte nel battersi per la causa comune della libertà. E’ questo il motivo per cui l’abbiamo protetto.
A noi partigiani spettava il compito, attraverso il nostro coraggio, di lenire le sofferenze che subiva la gente, anche per opera di quei bombardieri. Ci sono state città come Bologna, Genova, Milano, Torino, che, se non fossero state liberate direttamente dai partigiani, gli Alleati avrebbero preso solo dopo un lungo assedio, in cui molte più persone sarebbero morte e in cui molte più industrie sarebbero andate distrutte, minando anche la nostra capacità di risollevarci a guerra finita. Anche questo non va dimenticato.
Max veniva aiutato da tutta la mia famiglia, che da Spontricciolo era sfollata a Mulazzano. E mentre noi uomini passavamo le prime notti con lui, nascosti nel grano, mia mamma ci passava le tagliatelle e le cerate d’uovo che io applicavo sul piede tutto nero di Max. Non c’era cura migliore, perché non mi fidavo di nessuno e dal dottore non potevamo andare.
Infatti, dopo una quindicina di giorni, decidemmo di tornare a Spontricciolo. Troppa gente si era accorta di chi stavamo proteggendo e c’era troppo pericolo. Si era sparsa la voce e in molti nel paese, i giovani soprattutto, per evitare rappresaglie, si erano decisi a sfollare verso San Marino. Così mia nonna, assieme a Max, partì col carretto trainato dal cavallo. E non fu facile, non solo perché pioveva: lei era alta un metro e mezzo, mentre lui sfiorava i due metri, aveva “una faccia da pellerossa” e per giunta non parlava una parola di italiano. Non poteva non dare nell’occhio, anche se l’avevamo vestito con un abito nuovo, blu a righe, comprato con le novecento lire che ci aveva passato Francesco Bianchi per conto della brigata partigiana. A Ospedaletto infatti incontrarono i primi tedeschi e fascisti, ma noi stavamo di staffetta per proteggerli: Bulini davanti, Gaspare dietro ed io nel mezzo a fianco del carretto, tutti in bicicletta e armati. Per fortuna non accadde nulla. E, tornati a casa, riaprimmo la bottega. (...)
(...) Partimmo allora per un altro rifugio, verso la Torraccia, in un’altra parte del territorio di San Marino, dove già era nascosta la mia famiglia. Il fronte si stava sempre più avvicinando e noi, lì, gli stavamo proprio andando incontro.
Ricordo che con noi avevamo un tino pieno di vino. Pesava così tanto che lo reggevamo in due, da un lato e dall’altro, ma, quando arrivammo sul lato della conca su cui era più facile che cadessero le granate, allora lo abbandonammo per affrettarci. Ero convinto che l’indomani sarei tornato a riprenderlo.
Alla Torraccia c’era un capannone di legno in cui erano custoditi tanti cavalli tedeschi, uno più bello dell’altro. E ci eravamo appena fermati lì, per una sosta, quando cominciò un bombardamento terribile. Come se all’improvviso fosse arrivato un fiume di granate. C’erano tuoni e sibili, di continuo. Allora cercammo di affrettarci ancora più veloci verso il nostro rifugio. Era sull’altro lato della conca, verso le linee da cui sparavano gli Alleati. E per la strada incrociavamo i soldati tedeschi in ritirata. Indietreggiavano, urlando, tutti insanguinati. Per loro era come se noi, vestiti da civili, non esistessimo. Poi riuscimmo ad arrivare al rifugio: io ero con la mia famiglia, Max in un altro quaranta metri più in là. Entrambi venivamo sorvolati dal tiro dei cannoni alleati, che partiva dalla sommità della collina sopra noi ed arrivava a segno sul versante opposto, davanti ai nostri occhi.
E qui restammo una decina di giorni, in mezzo al fronte, proprio nella terra di nessuno, e davanti a noi vedevamo tutti i combattimenti. Era una carneficina. Da un lato salivano una quindicina di soldati alleati (quasi tutti dalla pelle bruna, color creta), stringendo la bandiera inglese che io vedevo per la prima volta nella mia vita, e i tedeschi con la mitragliatrice li falciavano sul posto. Poi di seguito arrivavano due soldati con le barelle, con la croce rossa avanti e dietro sulla divisa, a raccogliere quei poveretti tutti sbudellati. E questa scena si ripeteva continuamente: davanti ai nostri occhi vedevamo che, gruppetto dopo gruppetto, li mandavano tutti a morire. Una cosa orribile, da assassini. E, a seconda di dove partivano le pallottole tedesche, gli inglesi orientavano il tiro dei loro cannoni e le schegge delle loro granate facevano il resto tra quelli dell’altro fronte, schizzando come coltelli in tutte le direzioni. Si vedevano morti ovunque e tutto veniva spianato dai colpi.
Quando la battaglia terminò, io mi presentai assieme a Max alle truppe inglesi. Un ufficiale gli chiese con sarcasmo se tutto quel tempo era stato bene coi partigiani, al riparo dalle battaglie (anche perché tra inglesi e americani non correva buon sangue), ma Max fece un ghigno e ci passò sopra. Era troppo commosso per darci peso, era salvo. Poi ci portarono entrambi in una cantina a Vallecchio. A dormire lì, dopo tutti quei giorni sottoterra, mi sembrava di essere sul più soffice dei materassi. Gli inglesi volevano che all’indomani avanzassi con loro, a scoprire dove fosse l’artiglieria tedesca, ma io volevo tornare dalla mia famiglia e a casa, così accompagnai Max fino alle forze di stanza a Morciano e quindi ci separammo definitivamente.
Fu l’ultima volta che ci vedemmo, ma non perdemmo i contatti. Dopo la guerra, la prima cosa che mi spedì dall’America furono due chili di sale. Era un modo per non dimenticarsi di tutte le volte in cui avevamo preso la carne dalle bestie uccise dalle granate, provando poi invano ad ammorbidirla nell’acqua. Era immangiabile, serviva il sale che non avevamo, ma la mangiavamo ugualmente, perché bastava a levarci la fame. Poi, per diversi anni, continuai a ricevere lettere e foto da Indianapolis, in cui mi raccontava della sua vita: lui, sua moglie, suo figlio, i suoi genitori, quello a cui era riuscito a tornare. (...)