La Città Invisibile - Il Diario di Umberto

Alcune delle pagine tratte dall'agenda tascabile del 1944 su cui Umberto, soldato italiano scampato alla deportazione, tenne a mano il diario dei giorni trascorsi nascosto in un sottotetto, a Riccione, al riparo da fascisti e tedeschi. Il suo diario di guerra, nella casa di villeggiatura in cui da Lodi aveva raggiunto i suoi genitori, iniziò nell'aprile 1944, facendosi sempre più fitto con l'avanzare del tempo e del fronte. Ne sono un segno evidente le pagine destinate ai primi giorni dei mesi da giugno a settembre, fino alla liberazione, nella notte tra il 7 e l'8 settembre, quando Umberto poté smettere di scrivere.

Segue un estratto del suo racconto, dedicato alla fuga rocambolesca, a bordo di un moscone assieme ai propri familiari, da un lato all'altro del porto di Riccione: prendendo il largo, dalla zona occupata dai tedeschi e sotto il fuoco alleato, e ritornando a riva, sul lato a sud dove si fermarono per una decina di giorni gli Alleati in attesa che venissero infrante le difese tedesche in collina, a Croce, Gemmano e Coriano. 

 

Umberto a 20 anni(...) In quei lunghi giorni tenevo un diario. Iniziai ad aprile. Su una piccola agenda, di quelle tascabili. Mi annotavo tutto quel che avveniva. Per non dimenticarlo. E più il tempo passava, più scrivevo. E più quell’agenda mi sembrava ancora più piccola di quanto fosse, finché ci trovammo sulla linea del fronte. E allora non ci fu più tempo di scrivere.
Gli Alleati si erano fermati sull’altro lato del porto, quello verso Cattolica. Di qua, verso Rimini, dalla nostra parte, resistevano i tedeschi. Dall’alto del nostro rifugio potevamo vedere come avessero dipinto delle croci rosse sulle case e sulle colonie, lì dove avevano nascosto materiale bellico. E si prendevano gli italiani, obbligandoli a portare sulle spalle i rotoli delle mitragliatrici.
A quel punto, temendo di restare intrappolati come topi, pensammo che fosse meglio abbandonare più spesso il nostro rifugio. Così iniziammo a scendere, anche di notte, quando i bombardamenti erano ancora più terrificanti, dalle undici, per molte ore. Cercavamo da mangiare, facendoci strada dentro alle case che attorno a noi erano rimaste colpite dal fuoco degli Alleati o in quel poco di orti che erano riusciti a sopravvivere.
Ricordo che seppellimmo anche dei cadaveri. Come avremmo sperato per noi, se fosse accaduto di morire. Perché, durante una delle nostre assenze, anche il tetto del nostro villino venne colpito da una granata e, se fossimo stati dentro, non voglio pensare a come sarebbe finita. Ricordo che dal basso vedevamo la breccia aperta nel tetto. E il destino volle che, proprio da quella breccia, iniziò a sventolare fuori la bandiera inglese che, fino a quel momento, avevamo tenuto nascosta con noi. E, così come la vedevamo noi, ora la potevano vedere i tedeschi, sventolare sul loro territorio. Ma ormai la situazione stava precipitando ed entrambi avevamo altro a cui pensare.
Di notte, sotto le bombe degli Alleati, mentre passavamo da una casa diroccata all’altra, ci nascondevamo sotto i letti già coperti di calcinacci, convinti che ci proteggessero. E una volta fu una porta a salvarci, già sradicata dai cardini. Finì tutta colpita dalle schegge, per il mitragliamento a bassa quota di un aereo. E sotto quella porta c’eravamo io e mio padre, abbracciati stretti stretti, a farci più piccoli che potevamo, l’un con l’altro. Per molti minuti.
Ne sono passati di giorni, sempre così, tra i due fuochi. E noi sempre più stremati. Poi trovammo sulla spiaggia due mosconi abbandonati, tutti bucherellati dalle schegge. Pensammo che avremmo potuto usarli per imbarcarci in mare, prendere il largo, puntare verso sud, quindi tornare sulla spiaggia al di là del porto, in modo da raggiungere le linee alleate. Al sicuro.
Allora trascinammo i due mosconi verso il nostro garage. Prima del fronte mio padre l’aveva riempito con le macchine e i materiali che servivano alla sua attività, per sottrarli alla guerra, ma il maresciallo dei carabinieri era arrivato assieme a degli ufficiali tedeschi. E si erano portati via tutto. Noi però trovammo del mastice in un barattolo. Mezzo barattolo, ed il mastice era secco. Ma riuscimmo a diluirlo con dell'acquaragia, così da farlo bastare per aggiustare i mosconi, per chiudere i fori delle schegge. Ci sembrava folle, ma speravamo nella provvidenza. E se anche fossimo morti, almeno sarebbe avvenuto mentre andavamo incontro alla libertà.
Verso sera riportammo i mosconi sulla spiaggia, attendendo la notte per partire. Quando fu ora, scoprimmo che due soldati tedeschi ci si erano seduti sopra, mentre mangiavano e masticavano quel loro pane nero. Se non si fossero alzati poco dopo, fermarci a quel punto sarebbe stata davvero la beffa più atroce. Forse furono di nuovo loro, di lì a qualche minuto, a prenderci a mitragliate. Trascinavamo i mosconi verso il mare ed inciampammo nei cavi divelti del filobus. Li sentirono stridere e spararono nel buio sulla sabbia, ma per fortuna ci mancarono e riuscimmo comunque a metterci in mare. Su un moscone c’erano mio padre, l'ufficiale pilota e un’amica di famiglia. Sull’altro io, mia madre e mia sorella, assieme a un pollo pieno di schegge che era l’ultima nostra riserva.
Il mare era agitato, molto. Soffiava contro di noi il vento di buriana. Ci controllavamo a vista o chiamandoci gli uni con gli altri, mentre cercavamo di prendere il largo, a fatica, schivando le mine che galleggiavano nell’acqua. Poi, dal mare aperto, i cinque incrociatori alleati iniziarono a tirare bordate verso terra. Le scie rosse ci passavano sopra le teste. Sembrava che il cielo prendesse fuoco e a me moltiplicasse le forze, anche se le mani mi sanguinavano e il nostro moscone cominciava ad imbarcare acqua. E allora, per alleggerirci, buttammo via anche le coperte di lana che avevamo per il freddo.
Io e mio padre continuavamo a chiamarci, ma ad un certo momento ci perdemmo, proprio quando da lontano finalmente si vedeva la sagoma grande e bianca del Grand Hotel. Era la sede del comando inglese, la nostra salvezza. Ricordo che il cuore mi batteva all’impazzata, ma non ci fermammo. Non c’era altro da fare che remare e sperare di incontrarsi lì.
Raggiungemmo la spiaggia che era quasi giorno. Poco dopo, quella stessa mattina, i tedeschi sarebbero fuggiti e gli Alleati avrebbero oltrepassato il porto. Feci scendere mia madre e mia sorella, poi senza pensarci mi inchinai sulla sabbia, eravamo salvi, e la baciai. Mi sembrarono degli attimi eterni, ma poi tornai a pensare. E, mentre ci incamminavamo verso la strada, sentivamo tutti il terrore di aver perso nostro padre.
Dalla cantina di una villetta spuntava una piccola luce. Bussammo. Erano soldati inglesi e alcuni militari italiani aggregati all’ottava armata alleata. Ci chiesero documenti e informazioni, poi ci accolsero con loro. Poco dopo, arrivò mio padre con i suoi compagni di viaggio. E fu allora che ci sentimmo di nuovo salvi, per la seconda volta. Salvi davvero, tutti. Insieme mangiammo quel pollo sforacchiato dalle schegge. E’ stato il più buono di tutta la mia vita. (...)