A Riccione, annunciati dai bombardamenti delle navi alleate già al largo dal giorno precedente, il primo scontro con i tedeschi avvenne alle sei di mattina del 3 settembre 1944: i bersaglieri del Royal Canadian Regiment vennero bersagliati dalle mitragliatrici nemiche nella zona dell'Abissinia, all'estremità sud di Riccione. Pur privi di appoggio corazzato, si fecero strada sulla via Flaminia fino alla chiesa di San Lorenzo, trasformata in caposaldo fortificato, dove, dopo aspri combattimenti anche all'arma bianca all'interno della chiesa che si protrassero fino al 6 settembre, vennero cruentemente respinti dai paracadutisti tedeschi della 1a Divisione (soprannominati "i diavoli verdi di Montecassino" per il loro ardore sulla Linea Gustavi) che avevano ricevuto l'ordine di difendersi a oltranza. Per una decina di giorni, mentre la battaglia infuriava sulle colline attorno a Coriano, a Gemmano e a Croce di Montecolombo, invece a Riccione il fronte si assestò in modo irreale, tagliandola in due, lungo il porto canale e il fiume Rio Melo: a sud i canadesi, poi raggiunti dai greci, con centinaia e centinaia di mezzi e la dovizia di tutto, ma con l'ordine di non procedere oltre per non scoprirsi sul lato delle colline ancora in mano al nemico, pur continuando a cannoneggiare oltre il porto; a nord, nella zona chiamata Alba o Fogliano, li attendevano gruppi radi di tedeschi, ma fortemente intenzionati a resistere nonostante la scarsità di artiglieria e carri armati. Seguono gli estratti di tre racconti di persone coinvolte in quei giorni: Guido, che vide con i propri occhi l'arrivo degli Alleati in pieno centro, viale Ceccarini, e da lì venne fatto sfollare verso l'Abissinia; Tino, che in quegli stessi giorni era invece sul lato ancora occupato dai tedeschi e preso di mira dagli Alleati; Ennio, che trascorse i primi giorni nella "terra di nessuno" e che, proprio alla definitiva liberazione di Riccione, il 18 settembre 1944, quando il peggio pareva passato, perse il padre e la nonna per un colpo di artiglieria tedesca proveniente da Rimini. Nota: la mappa di Riccione nel 1944, con la linea di avanzamento del fronte, è tratta da "Sangue e lacrime su Riccione" di Claudio Ghilardi (Ghilardi Editore, 1951, 1a ediz.), anche se le date in essa riportate per l'avanzamento oltre i fiumi Rio Melo e Rio Marano andrebbero collocati nelle date del 18 e 19 settembre (anziché 23 e 24). Dalla stessa fonte è tratto l'elenco dei deceduti nel territorio riccionese in seguito ad eventi bellici, comprensivo anche dei nomi dei familiari di Ennio, fornito all'epoca dall'Ufficio del Cimitero e dall'Ufficio Demografico del Comune di Riccione. (...) Ad un certo momento decidemmo di andarcene da Riccione. Sfollammo a San Clemente, nella casa colonica di un contadino, dove trovammo molte altre famiglie riccionesi. Restammo qui, all’incirca fino al 25 agosto, ed è sempre qui che vedemmo, per la prima volta, i carri armati alleati: scendevano dalle colline di Saludecio, verso Morciano, dove sostarono almeno 4-5 giorni. Gli Alleati avevano appena sfondato la prima Linea Gotica, quella all’altezza di Pesaro. La notte precedente ricordo che i bombardamenti e i bengala verso i paesi dell’entroterra illuminarono il cielo a giorno, così ci spostammo ancora, verso Misano, presso dei nostri parenti che abitavano in via Ca’ Rastelli, finché, neanche una settimana dopo, ricevemmo dai tedeschi l’ordine di evacuazione. Era il 2 settembre 1944. Quello stesso giorno, io e mia moglie, con i suoi genitori, i Fattori, facemmo ritorno a Riccione, al nostro albergo. Al nostro albergo, il Colombo, proprio in viale Ceccarini, accogliemmo subito una ventina di persone, incluso un sottotenente dell’esercito, originario di Latina e fuggito dalla deportazione in Germania, che era capitato qui per caso durante il suo fortunoso ritorno a casa. Alle nove di sera, i tedeschi fecero saltare la centrale telefonica, quasi accanto a noi (dov’è ora la Banca Intesa), poi di notte si ritirarono oltre il ponte del porto. E lì rimasero ad attendere gli Alleati, facendo patire grandi sofferenze a tutti quei riccionesi che si trovarono bloccati sul lato tedesco del fronte. Il mattino successivo, quello del 3 settembre, viale Ceccarini si era completamente svuotato. In giro c’erano solo gruppi sbandati di soldati russi che, dopo aver disertato dalle fila tedesche, si erano prima riuniti attorno alla fornace Piva e poi sparpagliati per il centro (poi vennero tutti raccolti dai soldati alleati e portati via come prigionieri). Quindi, verso le cinque del pomeriggio, arrivarono i primi canadesi. Saranno stati duecento, con tante di quelle macchine che sembravano non finire mai. Tutti tranquilli, si fermarono e quindi iniziarono a bivaccare sul viale e a farsi il tè. Così anche noi, dall’albergo, scendemmo in strada e loro furono gentilissimi, offrendoci zucchero, caffé, cioccolato, biscotti. Avevano davvero un po’ di tutto, anche la carne in scatola e quella congelata (me la ricordo ancora, era carne di pecora dell’Australia). Noi accettammo volentieri. In albergo avevamo sì un po’ di riserve di farina per la piada, ma, dopo averle divisa con gli ospiti che si erano rifugiati da noi, non ne era rimasta quasi più. In quel preciso momento, il nostro albergo era l’unico stabile di tutto viale Ceccarini a non essere stato danneggiato. Di lì a poco, ci si misero anche gli Alleati, perché ricordo che fecero saltare con l’esplosivo, alla ricerca della cassaforte, la sede del Credito Romagnolo. Tre giorni dopo, arrivarono anche i carabinieri italiani, di quelli che stavano al seguito degli Alleati, e con prepotenza ci ordinarono di andarcene dall’albergo, entro due ore, perché tutta l’area fino al porto (la “terra di nessuno” tra le due linee) avrebbe dovuto essere evacuata. Così riparammo subito in una villa nella zona Abissinia, all’incrocio tra via Trento Trieste e via Battisti (l’attuale albergo Conterosso), assieme a un’altra trentina di persone. Con noi c’erano anche altri miei parenti e pure la cugina di mia moglie scesa dal Paese assieme al marito (Conti, il fabbro di corso Fratelli Cervi). Quindi, attorno al 10-12 settembre, arrivarono a Riccione pure i soldati greci. Fu un brutto periodo, perché odiavano gli italiani e volevano vendicarsi. E, a dirla tutta, può darsi pure che ne avessero più di una ragione, perché tra noi commilitoni giravano brutte voci sul comportamento di qualche nostro soldato, tanto in Grecia come in Jugoslavia, quando eravamo stati noi ad occupare le loro case. La nostra fortuna fu che i greci, per disposizione alleata, non potevano scendere sotto la ferrovia, così noi potevamo dircene al riparo, ma Conti, invece, saliva ogni giorno in Paese per controllare che la sua casa fosse ancora in piedi. E fu lui a raccontarci degli scontri, dei saccheggi, di persone che venivano bastonate dentro casa e delle bastonate che gli stessi greci si prendevano dai soldati canadesi, ogni volta che provavano a spingersi sotto la ferrovia. La situazione per noi era dunque relativamente tranquilla. I tedeschi al di là del porto, però, non smettevano di sparare. Da quello che so, pur rimasti in pochissimi, mantennero la posizione per una decina di giorni e con un solo carro armato continuarono a tenere in scacco gli Alleati. Una volta, accadde che una granata colpì ed entrò nella casa che avevamo di fronte, di proprietà di un’altra cugina di mia moglie. Lei si era rifugiata nello scantinato e il proiettile per fortuna rimase inesploso al piano terra, altrimenti avrebbe fatto una strage. Poi andai io a prenderlo e a portarlo via. Ricordo che aveva un diametro di almeno quindici centimetri. In ogni caso, per chi stava più a nord, dietro le linee tedesche e sotto il fuoco alleato, era davvero molto peggio. Ricordo che una sola granata caduta su un rifugio (credo che dentro ci fosse la famiglia Pronti), poco prima del Marano, causò 7-8 morti. (...)
(...) Nei mesi successivi il fronte si fece sempre più vicino. Quando seppi che gli Alleati erano già arrivati a Montecchio, pensai che anche qui sarebbero passati alla svelta. Invece degli Alleati, però, in quei giorni vedemmo passarci accanto i rinforzi tedeschi che andavano verso le loro prime linee di difesa. E poi, per molti altri giorni ancora, i combattimenti si concentrarono proprio a Coriano, a pochi chilometri da noi. In seguito mi raccontarono che la gente di lì era ormai così fuori di senno da buttare i secchi d’acqua addosso ai tedeschi armati, pur di spingerli ad andarsene. Arrivarono in casa anche da noi. Un soldato entrò una notte, dicendoci che dovevamo andarcene via: «Stanotte potete dormire tranquilli, ma domani qui molto fuoco.» E così sfollammo verso Riccione, nella zona Alba, vicino a viale Emilia, nella casa di un contadino (all’altezza dell’attuale piscina, quando lì erano ancora tutti campi di proprietà del conte Mattioli). Ero con i miei genitori, mia sorella, la cognata e tre nipoti. Improvvisamente quattro granate dal mare colpirono la casa, che franò su se stessa. Fuggimmo tutti, dove potevamo. In quegli istanti non si sapeva affatto dove andare e ciascuno pensava per sé. Ricordo che, tra noi, solo un uomo restò fermo, immobile, ritto in piedi, con la testa tutta insanguinata. Era rimasto scioccato. Poi ci raggiunsero anche gli altri miei fratelli, Silvio e Sesto, che si erano già messi alla ricerca di un altro rifugio, che fosse più riparato. Poco distante, dietro un greppo molto alto, trovammo tutti ospitalità presso una famiglia molto religiosa, una buona famiglia. Credo venissero soprannominati i “Signurèin”. Mentre le esplosioni continuavano una dietro l’altra attorno a noi, questa famiglia continuava a pregare. E ce ne stavamo tutti stretti: loro e noi, una decina di persona almeno, in un rifugio, che era stato scavato nella terra e coperto con delle frasche su cui poi era stata posta altra terra. Un fatto che mi colpì molto fu quando uno dei Signurèin, aveva una quarantina d’anni, improvvisamente prese una mia nipote in braccio, poi uscì dal rifugio, proprio sotto le bombe, e, alzandola verso il cielo, iniziò ad urlare: «Salvate questa creatura! Salvate questa creatura!» Si raccomandava a Dio e ai soldati. E subito accadde che l’arrivo delle granate dal fronte alleato si fermò davvero. Un altro giorno, affamati com’eravamo, uscii dal rifugio perché ci era giunta la voce che si poteva trovare della farina in una casa abbandonata sulla curva del fattore, a San Lorenzo, a non più di trecento metri da noi. La raggiunsi, riempii il sacco che mi ero portato dietro, quasi una decina di chilogrammi, e poi tornai al nostro rifugio. La signora che ci ospitava uscì per cuocere la piada che aveva preparato e poi la appoggiò in un cestino proprio all’imbocco del rifugio. In quel preciso momento una granata, infilandosi direttamente nell’apertura, travolse tutto e cadde ai nostri piedi. E rimase inesplosa. Altrimenti sarebbe stata una strage. Ci fermammo lì una quindicina di giorni, talvolta terribili, altri più tranquilli. In uno di questi, Silvio e Sesto andarono verso la spiaggia, presero il largo con un moscone a remi e arrivarono al di là del porto, sul lato già occupato dagli Alleati. L’intenzione era quella di trovare qualcuno che parlasse italiano, per indicare loro di non sparare nella nostra zona che era così piena di sfollati. Gli Alleati, invece, all’inizio li presero addirittura per spie e li misero agli arresti. Poco dopo vennero liberati, ma gli scontri proseguirono. Dalla nostra parte, quella dei tedeschi, c’era un unico carro armato che riusciva a tenere a bada tutte le forze alleate sull’altro lato del porto. Si spostava continuamente, avanti e indietro. Arrivava vicino a noi, dalle parti della villa Mattioli, sparava quattro cannonate, poi correva verso il mare fino alla colonia Lucio Amati, lì sparava di nuovo, dunque ritornava verso monte. E così di continuo. E gli Alleati, vedendo tutto quel fuoco in arrivo, pensando che oltre il porto i tedeschi avessero molti più carri armati, rispondevano massicciamente con le granate, tanto a mare quanto a monte. Poi, tutto ad un tratto, una mattina ci svegliammo e fuori dal rifugio trovammo gli Alleati. Ricordo gli inglesi e i polacchi. E le sigarette che ci passavano. Allora da lì sfollammo di nuovo e ci spostammo verso Misano Mare, quasi sulla spiaggia, a casa di un nostro zio (il cognato di mio babbo, detto Fortomna). Durante quel tragitto ricordo che sulla strada incontrammo diversi cadaveri, specie a Riccione Paese. A Misano Mare mio babbo cominciò ad insistere perché tornassimo a casa nostra, così io e mia sorella, per andare a vedere com’ era ridotta, ci rimettemmo in marcia per quelle strade tutte piene di buche e voragini. Quando arrivammo, la nostra casa era tutta distrutta. C’era un carro armato tedesco bloccato sotto il portico ed un altro era fermo nell’aia. Il grano dei campi era tutto bruciato. E così i buoi nella stalla: colpiti dalle granate, alcuni erano carbonizzati e quelli che invece si erano ritrovati liberi dalle catene si erano dispersi per la campagna. Era un vero macello. (...)
(...) Quando iniziammo a sentire i bombardamenti alleati giungere dalla zona attorno a Pesaro, allora capimmo che ormai il fronte distava solo 30-40 chilometri e che il suo arrivo sarebbe stato imminente. Così la mia famiglia scelse di ricongiungersi: io e miei genitori lasciammo l'albergo Savioli e ci riunimmo, sull'altro lato del porto, a mia nonna e mia zia in via Carducci. Ancora qualche giorno dopo, le bombe ci piovvero addosso dal mare, dalle navi alleate giunte all'improvviso fin davanti alla costa. Forse era un diversivo, durò meno di un'ora. Qui però morì Mario Speroni, il fratello dell'ingegnere. Ci conoscevamo, perché avevamo più o meno la stessa età e giocavamo assieme, ai giardini, nella squadra di hockey a rotelle. Lo scoppio di una bomba gli falciò il cranio. Era quasi arrivato alla spiaggia, per vedere queste navi apparse all'orizzonte per colpire le postazioni tedeschi sulle colline di Villa Alta. Allora quella zona era una grande distesa di pini, tutta di proprietà dei Ceccarini, i benefattori di Riccione, con al centro la loro bellissima villa. I tedeschi avevano qui i loro cannoni e, quando si ritirarono, fecero pure saltare la villa, così come dovevano fare con qualsiasi costruzione si lasciassero alle loro spalle, specie se poteva valore logistico. Lo stesso fecero con i ponti sul porto canale. E nel frattempo anche il podestà fascista abbandonò Riccione, a bordo di un’automobile camuffata come se fosse della Croce Rossa. Poi alcune pattuglie di Alleati arrivarono davvero, non ricordo se il 2 oppure il 3 settembre del ‘44. Subito, fino a viale Ceccarini. Da qui al porto era terra di nessuno, contesa da entrambi, perché sull'altro lato del canale erano appostati i tedeschi. Era la retroguardia dell'esercito tedesco, una ventina di soldati ed un solo carro armato, ma bastò a fermare quelle pattuglie per più di due settimane. Il grosso era rimasto fermo a Misano e, ne ho già detto, i veri combattimenti furono nell'entroterra, a Coriano, a Montefiore, a Gemmano, come molti di coloro, anche riccionesi, che vi erano sfollati, invece non si sarebbero attesi, pensando che lo sfondamento del fronte sarebbe stato più semplice in pianura. Noi eravamo in via Carducci, proprio nella terra di nessuno tra viale Ceccarini e il porto. Quella mattina aveva fatto presto a spargersi la voce che, a nemmeno duecento metri, erano arrivati gli "Alleati", allora li chiamavamo proprio così, o gli "americani", come dicemmo più tardi scoprendo che alcuni di loro erano neri (in realtà erano canadesi). Si diceva che avessero già aperto i locali, che ci fossero addirittura i giornali, come se tutto potesse tornare alla normalità in un attimo, mentre noi, a pochi metri, non ci eravamo ancora resi conto di essere finiti proprio in prima linea. Senza sapere nulla di più, uscimmo ad attenderli, restando sulla strada a vedere se ci fossero davvero, se sarebbero arrivati a liberare anche noi. Eravamo quasi sul lungomare, proprio dove ora c'è l'hotel omonimo, quello con la cascata d’acqua sull’ingresso. Lì, allora, c'era una villa bellissima di una famiglia milanese: favolosa, in stile classico, con colonne, fregi, anfore e dei terrazzi molto ampi. Stavamo per attraversare la strada ed entrare nella villa, per guardarci meglio attorno e capire anche, sul lato occupato dai tedeschi, se i ponti sul porto fossero ancora in piedi. Appena ci muovemmo, da quella parte partì una raffica di mitra, quasi come un avvertimento, che ci fece subito desistere e allora restammo nascosti dietro una siepe. Attorno a mezzogiorno di quella prima mattina poi arrivarono verso di noi quattro di questi americani. A piedi, in avanscoperta probabilmente, ma con in mano un fiasco di vino che dovevano aver preso da qualcuno in viale Ceccarini. Credo che fossero mezzi sbronzi, perché tra noi che conoscevamo due parole di inglese e loro che biascicavano saluti, non ci capimmo molto, finché ci chiesero dove fossero i tedeschi. Noi lo sapevamo: i tedeschi erano al Savioli Spiaggia e al Garage Fiat, sul lungomare appena al di là della darsena, e poi poco più su, oltre il ponte di viale Dante che nel frattempo avevano fatto saltare. Erano tutti cecchini. E alle loro spalle poi scoprimmo del carro armato che faceva avanti e indietro, dalla Flaminia al mare e viceversa, quello che sparava da postazioni diverse fingendo che ve ne fossero molti di più, a cui poi gli Alleati rispondevano solo alle cinque del pomeriggio, dopo l'ora del tè, sparando uno scroscio di 5mila proiettili in dieci minuti e poi di nuovo fermi. Uno di noi, un certo Galavotti, che parlava l'inglese meglio degli altri lo disse agli americani: «Guarda! Sono lì! E anche lì!» E disse loro anche di fare molta attenzione, perché i tedeschi avevano appena sparato nella nostra direzione. Un americano, un nero, volle andare a vedere coi propri occhi. Sarà che era anche un po’ bevuto, ma uscì dalla siepe, attraversò la strada, raggiunse la villa, salì fino al terrazzo e si sporse al limite della balaustra. Noi, che lo guardavamo restando nascosti sull'angolo opposto della strada, pensammo che gli fosse andata dritta. Poi l'americano si volse, fece quattro passi per lasciare il terrazzo e in un attimo venne fulminato alla testa dal tiro di un cecchino. I suoi compagni, con altrettanta rapidità, se ne corsero verso le proprie linee e un'ora dopo venne una jeep della Croce Rossa, con i tedeschi che avevano sospeso i colpi, a raccogliere il cadavere. Capimmo così quanto fosse pericoloso, anche per noi civili, aggirarsi allo scoperto. Eravamo sulla prima linea della guerra. I tedeschi sparavano a chiunque, non solo ai soldati, si affacciasse alla zona del porto. E hanno fatto delle vittime tra chi si è spinto a curiosare troppo oltre. Dalla terra di nessuno riuscimmo ad andarcene una mattina, forse il 13 o il 14 settembre. Arrivarono delle persone con una fascia rossa al braccio che erano state autorizzate dagli Alleati a prelevarci per portarci dietro le loro linee. L'autorizzazione veniva anche dalla amministrazione comunale, rinata anch'essa su solle-citazione degli Alleati. Era il locale Comitato di Liberazione Nazionale e cercavano di occuparsi dei servizi logistici e di assistenza ai civili. Chi aveva la propria casa ancora in piedi, tra coloro che in precedenza i tedeschi avevano sfollato dall'Abissinia, poteva farvi ritorno, ma la nostra in viale Principe Amedeo nel frattempo era stata requisita dagli inglesi. Non che ci fossero ancora entrati, ma lì ci dissero che non potevamo andare, così ci destinarono agli scantinati dell'hotel Corallo, sempre sullo stesso viale, che ai piani superiori era stato occupato dai canadesi. Tutti gli alberghi di quella zona, il Grand Hotel, il des Bains, il Domus Mea, il Corallo, il Bristol, come già avevano fatto i tedeschi, vennero requisiti ed occupati dalle truppe alleate, ma queste ultime fecero davvero molto per rendere più agevole possibile tutta quella migrazione di persone da un punto all'altro di Riccione, chi a piedi con le valigie, chi con la bicicletta, chi col carretto. Ci aiutarono molto, ci diedero da mangiare, ci trattarono bene. Noi riuscimmo comunque ad entrare in casa nostra ed è da qui che ebbe inizio la tragedia che travolse la mia famiglia. Era il 18 settembre del ‘44, proprio il giorno in cui i tedeschi lasciarono Riccione, quando se ne andarono oltre il Marano. Molti dei civili, però, che nei giorni precedenti si erano trovati purtroppo al di là del porto, nella zona occupata dai tedeschi e sotto il tiro alleato, tutti quelli che se ne stavano all'Alba o si erano rifugiati nelle colonie, continuarono erroneamente a muoversi verso nord, sempre oltre la linee tedesche. Ho dei parenti che vennero liberati addirittura a Bellaria. Per noi invece, quando ci fecero muovere da via Carducci, con i tedeschi ancora a poche centinaia di metri, era stata una fuga precipitosa, prendendo con sé il minimo indispensabile per restare vivi. Ora invece c'era il tempo per tornare a riprendere quello di cui avevamo bisogno per sistemarci meglio, per vivere. E anche per impedire che venisse rubato, da Alleati o civili che fossero, come invece scoprì mio suocero tornando nella sua casa, vuota, in via Galliano dopo aver cercato rifugio a San Lorenzo (dove era stata trasferita la filiale della Cassa di Risparmio di cui era direttore). Mio babbo e mia nonna, quindi, partirono con il carretto per caricarlo della legna che era rimasta indietro. E nel tornare, saranno state le quattro del pomeriggio, erano ormai di nuovo con noi, a soli cento metri, all'altezza dell'hotel des Bains, arrivò una scarica di artiglieria tedesca dal colle di Covignano, sopra Rimini, che li prese in pieno entrambi. E morirono, proprio il giorno in cui avremmo dovuto iniziare a sentirci liberi. Nessuno aveva il coraggio di venircelo a dire, capirai, finché Bruno Santini, un cugino di mia mamma che abitava su viale Diaz quasi davanti alla stazione, venne a casa a dirle che c'era stato un incidente e che erano entrambi feriti in ospedale. Mia zia, la moglie di mio zio, nel frattempo l'aveva saputo dalla sua famiglia, i Mulazzani, e così fu lei a dirle che andare in ospedale sarebbe stato inutile, che suo marito Epimaco era morto. Nelle due ore che erano trascorse, i cadaveri di mio babbo e mia nonna erano già stati portati al cimitero e sepolti. Non ci fu neanche il tempo di un funerale, perché non c'erano più nemmeno i preti, non c'era nessuno, non c'era più niente, era tutto da ricostruire. Nemmeno noi li raggiungemmo al cimitero, a fare cosa? Non ne avevamo neanche per mangiare. E a quel poco di pratiche pensò Bruno, il cugino di mia mamma, perché prima della guerra lavorava in comune. (...)
|