La Città Invisibile - Via Giuseppe Melucci

Via Giuseppe Melucci, a Rimini: la strada intestata al nonno di Germano, soprannominato "il Turco", che qui costruì la prima casa della zona che poi prese, da lui, il nome di "Ghetto Turco". Negli anni Sessanta fu il sindaco Ceccaroni, con questo gesto, a mantenere una promessa fatta alla morte del Turco, anni prima, ai suoi figli, affinché tutti i cittadini di Rimini non ne perdessero la memoria.
Notevolmente ampliata ai primi anni del Duemila, ora via Melucci è un lungo e trafficato rettilineo che congiunge i quartieri di Rivazzurra e Bellariva all'ospedale di Rimini.
Si intravede l'insegna. Lì sotto il fratello di Germano si è fatto scattare una fotografia, l'ultima volta che è tornato per qualche settimana dall'Argentina, dove, sconvolto dalla dura prigionia in Germania, era emigrato subito dopo la guerra.

Segue un estratto del racconto di Germano, dalla liberazione (nella galleria Santa Maria di Borgo Maggiore, a San Marino dove era sfollato con la famiglia) alle difficoltà e agli espedienti della prima ricostruzione, fino al ritorno, tra il 1945 e il 1946, dei suoi due fratelli maggiori, entrambi fatti prigionieri durante la guerra (uno, dall'Africa sotto gli inglesi, l'altro, quello che poi emigrerà in Argentina, dalla Germania).

 

Germano a 6 anni(...) Quando sentimmo che il fronte era proprio accanto a noi, restammo tutti chiusi nella galleria, per due giorni. Eravamo esausti, non avevamo più nulla, nemmeno l’acqua. Allora mi decisi ad uscire con il fiasco e, per la prima volta, vidi dei militari che non erano tedeschi. Avevano l’elmetto come un catino, tutto diverso da quello bombato a cui ero abituato. Erano gli Alleati, pensai. C’erano anche soldati di colore. Capii in seguito che erano le truppe d’assalto. Così tirai dritto verso la fontana e mi misi in fila dietro a tutti questi militari che, con le armi a tracolla, mi facevano cenno di stare indietro, di fare attenzione.
Al Borgo, dove la strada si biforca tra quella che porta alla funivia e quella verso la rocca in cima, dietro quest’ultima curva, in precedenza, c’era sempre stato un autoblindo con quattro soldati tedeschi, che stazionavano come posto di blocco e controllo. Ora, mentre in fila lentamente mi avvicinavo alla fontana, arrivai ad essere accanto a quello stesso autoblindo e dentro vidi i tedeschi, stavolta tutti morti. E, arrivato a riempire il fiasco e tornandomene alla galleria, ripassandoci vicino, ricordo che c’era un italiano, uno sfollato di Rimini che pure conoscevo, che stava slacciando gli scarponi ad uno dei cadaveri. Per rubarseli. Per miseria.
Rimanemmo ancora qualche giorno nella galleria, dove gli Alleati non entrarono mai. Io e mia sorella andammo a cercare della frutta, dell’uva (era settembre inoltrato), giù per una strada sconnessa ai cui lati stavano montagne di proiettili e granate. Tra questi mucchi di armi c’erano anche delle belle cassette con dei manici di corda e pensammo che ci avrebbero fatto comodo, per metterci le nostre cose dentro. In giro non c’era nessuno, così facemmo per prenderle, quando all’improvviso un camion di soldati alleati, scendendo dalla curva e vedendoci, iniziò a farci cenni con le mani e a suonare rumorosamente il clacson. Erano mine. E per fortuna ci fermammo.
Tra gli Alleati ce n’erano di tutte le nazionalità: nordafricani, gurkha, indiani, canadesi, neozelandesi. All’arrivo degli inglesi, iniziarono lentamente a distribuire un po’ di pane (quello bianco, loro, che ci sembrava buonissimo) e qualche scatoletta. E ad ogni nucleo familiare passarono delle Am-Lire.
Come un reggimento alleato arrivava, le prime cose che piazzavano erano cucina, lavanderia, latrine e il tendone del cinema. Ci proiettavano le loro commedie, come quelle di Fred Astaire ad esempio. Alla mattina ricordo che, con un solo bruciatore dalla fiamma enorme, scaldavano tutta una griglia con sopra i loro padelloni. Così, appena alzati, avevano tutto caldo: bacon e uova, tè, caffé e cioccolato nelle loro tazze di ferro smaltato. Le lavanderie, poi, erano già tutte automatiche e con il sapone a scaglie, profumato e dalle forme regolari, cose che non avevamo mai visto e a cui facevamo un gran filo (noi italiani usavamo ancora la cenere o il sapone grezzo, tagliato a blocchi, o la varechina oppure la saponina, che consumava le mani, e i capelli ce li lavavamo con l’aceto).
Dopo una settimana dall’arrivo degli Alleati ce ne tornammo a casa del fabbro, Settimio, sopra Poggioberni. A loro era andato tutto bene. E ci restammo per il resto dell’autunno e tutto l’inverno (qualcuno, che era sceso e tornato da Rimini, ci aveva riferito che la nostra casa era andata distrutta), con un tempo disastroso: piovve tantissimo, con acqua e inondazioni che infradiciarono, gonfiando, tutti i covoni del grano che prima si erano salvati dai roghi delle bombe. Le spighe arrivarono addirittura a germogliare, rendendo inservibile quel poco grano rimasto.
Poi, nella primavera del ‘45, ce ne tornammo a Rimini, come all’andata, con le nostre cose su un biroccio portato a mano: mia sorella e suo figlio di tre anni a bordo, io e mia madre dietro a spingere, mio babbo davanti a tirare, al posto del somaro. In città erano tutte macerie, le strade non c’erano più. Alle Celle era ancora pieno di camion e carri armati degli Alleati, che avevano anche costruito “un ponte Bailey” sul taglio del Marecchia. Ricordo che erano ancora in piedi le forche su cui i tedeschi avevano impiccato i tre partigiani, in piazza Giulio Cesare (l’attuale piazza Tre Martiri), con la corda e il laccio penzolanti, proprio di fronte alla torre con l’orologio.
Casa nostra era diroccata, quindi ci trasferimmo inizialmente presso un’altra famiglia. Io e mio babbo cominciammo a lavorarci per sistemarla, alla buona, per tornarci al più presto, grazie anche a mio zio che era muratore. In giro, però, non c’era niente per ripararla, quindi andavamo a rubare quel che ci serviva dalle altre abitazioni distrutte. E, quando riuscimmo a rientrarci, una finestra era di un colore e una porta di un altro, ma almeno era in piedi.
Con americani e canadesi si stava bene, meno con gli inglesi (più ostili nei nostri confronti). Le truppe di colore, invece, ricordo che erano un po’ osteggiate, tenute a distanza, da tutte le altre. Non fraternizzavano tra loro e nemmeno noi con loro. D’altronde, era la prima volta che li vedevamo. In zona Lagomaggio, all’hotel Stella Polare, rammento che gli indiani, quelli col turbante, avevano impiantato la loro chiesa, indù, con i loro riti.
Ed erano tutti, senza distinzioni, tenuti sotto rigida disciplina. Quando qualcuno veniva punito, lo facevano marciare da mattino a sera, avanti e indietro, carichi come se andassero in guerra (ma senza pallottole).
Verso gli italiani c’era abbastanza rispetto, ma, quando gli Alleati bevevano, allora bisognava stare attenti, perché perdevano il controllo e si lasciavano troppo andare. Era come se all’alcool non fossero abituati. Diventavano tremendi e combinarono anche guai, specie con le donne (cose che, invece, coi tedeschi non capitarono mai).
Mio babbo nel frattempo, per tirare avanti, si era messo a fare il falegname, il mestiere di suo padre (il turco). E lavorava anche coi tedeschi del campo di prigionia, a cui era riservata un’ala dell’aeroporto di Miramare. Si facevano fare le casse per raccogliere la loro roba, da inviare a casa ed aiutare (là in Germania, dopo la sconfitta, stavano addirittura peggio di noi). E tutti chiedevano un doppio fondo per l’oro che compravano qui, scambiandolo con la benzina e con le sigarette che trafugavano agli Alleati per cui lavoravano. O vendendole di contrabbando, per loro conto. Con questi traffici giravano dei gran soldi e c’era gente che ci si è davvero arricchita, anche di qui.
Noi ragazzini eravamo tutti come dei sciuscià. Io partivo alla mattina verso una villa di Miramare, sulla strada litoranea (dove ora c’è la discoteca Cellophane), che era stata occupata dagli americani che stavano all’aeroporto. Nelle cucine sul retro potevo rimediare qualcosa da mangiare.
E qualche soldo lo si rimediava con la benzina, quella che riuscivamo a prendere con le buche. Lungo la spiaggia, infatti, passavano i due tubi della pipeline che portava il carburante dalla raffineria di Ancona fin dove era arrivato il fronte. Ogni tanto ai tubi si interponeva una stazione di pompaggio, che spingeva il flusso della benzina verso nord (e se si rompeva un tubo l’intera alimentazione si bloccava). A Bellariva la stazione era nel cortile della colonia Murri, all’altezza della chiesa. E, dove qualcuno aveva manomesso le giunture dei tubi, si creava un lago da dove pescavamo la benzina col mestolo. Ci ubriacavamo di gas a starci sopra. Poi la filtravamo e ci riempivamo le due latte militari, quelle verdi di lamiera, che avevamo rimediato. Una era quella per l’acquisto e l’altra era riservata a quella che vendevamo: la prima l’avevamo gonfiata in modo che ci stesse più benzina, mentre l’altra invece l’avevamo schiacciata perché ce ne stesse meno. Così avevamo modo di guadagnarci anche scambiandole. Io, però, dovevo fare tutto di nascosto, perché mio babbo, una persona ligia, non voleva.
Di mio fratello e mio cognato ancora non sapevamo nulla. Erano rari i casi in cui i militari, quelli dati per dispersi, riuscivano poi a tornare davvero a casa. In Russia so che qualche italiano finì per fermarsi e capitava pure che, qui, le presunte vedove decidessero di riaccompagnarsi ad un altro uomo. Noi, però, non perdemmo mai la speranza e infatti, nel ‘45-‘46, tornarono. Prima mio cognato, dall’Africa, e poi mio fratello, dalla Germania: l’uno diversissimo dall’altro.
Mio cognato tornò un pomeriggio, in divisa, giubbotto e pantaloni americani, ben vestito. Dall’Africa gli inglesi l’avevano portato in Francia e lì poi, come meccanico ed elettrauto, aveva iniziato a lavorare in un campo vicino, con gli americani, per i quali lui ed altri revisionavano i camion. E quando lo liberarono, si portò in Italia anche i dollari che aveva guadagnato.
Qualche mese più tardi, all’improvviso una sera, arrivò anche mio fratello ed, alto quasi come me (un metro e ottanta), era ridotto che pesava quarantadue chilogrammi. Faceva impressione. Eppure, con sé, aveva ancora la sua foto da soldato, quella di quando era partito. Sotto i tedeschi aveva passato anni di stenti e silenzi, con la divisa a righe da internato, quasi sempre nelle fabbriche e talvolta nelle campagne dove li mandavano a pulire (ed era una fortuna quando qualche famiglia passava loro, ogni tanto, una patata per sopire la fame). Dopo poco tempo dal suo ritorno, ci disse che in Italia non voleva più restare ed emigrò subito in Argentina, presso dei nostri zii. Da Buenos Aires si sposò con una ragazza di Bellariva, con cui già si conosceva, ma “per procura” (cioè al suo posto presenziò mio padre e poi lei raggiunse mio fratello, partendo in nave da Genova). Ora è ancora là, con tutta la famiglia, compresi figli e nipoti. Ed è tornato 3-4 volte in tutti questi anni. L’ultima, tutto orgoglioso, si è fatto scattare una foto sotto l’insegna di via Giuseppe Melucci, nostro nonno. (...)