Riccione, comune autonomo da Rimini nel 1922, al censimento dell'anno precedente aveva 5.569 abitanti, quasi gli stessi del paese di Saludecio, 20 chilometri più verso la collina, e due terzi del vicino centro rurale di Coriano. Nel 1936 li supererà entrambi, con 8.061 abitanti, che diverranno oltre 13mila quindici anni dopo, poi 20mila nel 1961, quasi 29mila nel 1971 (contro, nello stesso anno, i 2mila e 5mila dei comuni di Saludecio e Coriano presi ad esempio) fino a stabilizzarsi sui 31-33mila abitanti dei decenni dal 1981 al Duemila. E', nei numeri, il segno di un travaso di persone, dalle campagne verso Riccione e gli altri comuni della costa, che, con lo sviluppo turistico (finestra da cui affacciarsi sul mondo) e nella ricostruzione postbellica dell'intero paese (giunti al culmine con il boom economico degli anni Sessanta), modificano il territorio occupandone spazi inediti, trasformano piazze, strade e, al loro interno, le stesse case con nuovi usi e consumi, ridefiniscono ruoli e professioni, tradizioni, relazioni e identità, ne cambiano la storia e, inevitabilmente, anche la percezione della storia, tanto individuale quanto condivisa. Seguono gli estratti di quattro testimonianze di riccionesi che hanno attraversato direttamente e attivamente quegli anni: Dino (figlio e nipote di fabbri, che dal turismo, ancora bambino, guadagnava in un solo giorno quanto suo padre in una settimana), Renzo (pur a quel tempo giovanissimo), Frangiotto (già impegnato nel supermercato di famiglia) ed Ennio (allora assessore e poi sindaco), raccontano, incrociandosi, i mutamenti nel territorio e nei mestieri, lo smarrimento del dialetto, l'immigrazione dalle campagne e l'impatto del turismo nella vita quotidiana. Le loro testimonianze precedono, da una prospettiva opposta e complementare, con tutt'altre difficoltà e risorse, quella di Paolo che, mezzadro a Coriano, si trasferisce a Riccione alla fine degli anni Cinquanta. Nota: le mappe con la crescita urbanistica riccionese tra il 1775 e il 1985 sono le mappe catastali di Riccione tratte dalla ricerca ed elaborazione storico-cartografica di Maria Flora Fabbri e Silvia Baldarelli, inclusa nella tesi di laurea svolta nel 1987 presso la Facoltà di Architettura anni anni dell'Università di Firenze. Tali mappe sono poi state pubblicate in "Ricostruzione storica dell'urbanizzazione del territorio riccionese" di Maria Flora Fabbri, in "Studi Romagnoli" (XLII, 1991) e sono tuttora esposte all'interno del Museo del Territorio presso il Centro della Pesa di Riccione. Le mappe, redatte a mano, di Riccione Paese e piazza Matteotti, nel Primo Novecento, oltre ai disegni di cucina e camera da letto nello stesso periodo, provengono dalla ricerca "Riccione Ieri e Oggi", svolta nella Scuola Elementare di Riccione Paese, negli anni scolastici 1981-82 e 1982-83, dalla classe seguita dalla maestra Annamaria Morri. La ricerca, allora esposta pubblicamente in una mostra a margine delle celebrazioni per il 60mo anniversario dell'autonomia del comune di Riccione, è stata rinvenuta nell'archivio della biblioteca Centro della Pesa di Riccione, assieme ad un biglietto a mano: "la maestra Morri, che quest'anno lascia la scuola per collocamento a riposo, vorrebbe che questo lavoro non andasse perduto". (...) Mio babbo, Luigi Olmeda, nato nel 1895, era conosciuto da tutti come "Gig de Fabre": era fabbro, faceva il "tagliaferro", ed aveva casa e bottega sulla via Flaminia, una cinquantina di metri più a monte. Era nella zona del ristorante Migani, quello in cui negli anni Venti arrivava in carrozza tutta la Rimini bene per venire a mangiare gli spiedini con la cacciagione, le allodole e i tordi. La mia famiglia, Olmeda, era però per tutti la famiglia "Dolci", così anch'io venivo chiamato Dino Dolci. Erano i tempi in cui se entravi nella borgata di Spontricciolo a chiedere di Nanni, Pasquini, Ricci, Morri, Saponi, nessuno ti sapeva indicare chi fossero, ma se invece chiedevi di Renc, Grell, Pacefche, Aglìn, Furtòna, allora ci si conosceva tutti e tutti sapevano indicarti dove abitassero. Ogni famiglia aveva un soprannome e il cognome vero lo sapevano solo quelli dell'anagrafe. Mio babbo aveva imparato il mestiere dal mio povero nonno Cesare Olmeda, anche lui fabbro, a Ospedaletto, da dove veniva il mio bisnonno, che veniva pagato cinque scudi al mese per accendere tutte le lanterne a petrolio del paese e che perse una gamba combattendo contro il papato, venne messo in galera e poi graziato da Pio IX. Quella volta erano proprio altri tempi: per andare a far l'amore con mia nonna, che era di Pian della Pieve, lì attaccato, dove c'è il consorzio agrario, mio nonno e i suoi amici "dovevano fare le schioppettate" perché le donne di un borgo erano degli uomini di quel borgo (ma anche ai miei tempi, quando da giovane andavo a Sant'Andrea in Besanigo, non era molto diverso). Poi i miei nonni si sposarono, nacque mio padre e, con lui ancora bambino, scelsero di partire per l'Argentina, da cui tornarono quasi subito, nel 1905, stabilendosi tra Rimini e Riccione, alla borgata di Spontricciolo, dove costruirono casa, "una casina", che divenne anche bottega (ed è ancora lì, in piedi, nonostante i colpi presi durante il fronte). (...) Così i miei genitori si sposarono e dal loro matrimonio vennero al mondo sette figli, di cui solo tre però sopravvissero oltre i primi anni di vita. Io stesso, che nacqui per quarto, porto il nome, Dino, di un mio fratello che era nato prima di me e che morì a due anni. Quella volta era così, c'era la polmonite. Non c'era la salute che c'è oggi. Mia nonna addirittura perse undici dei quindici figli che aveva portato in grembo. Dei bimbi che non ce la facevano si diceva che morivano tutti "angiulèin": suonavano la campanella della chiesa perché quel giorno era morto un angelo, per accompagnarlo nel suo viaggio verso il cielo. Mia nonna, Teresa Fantini, d'estate aveva il negozio di frutta e verdura, polli e uova, in via De Amicis, vicino alla pensione Matteoni (l'attuale hotel Mimosa). Era "furba come una faina": andavano tutti da lei perché regalava un pugno di roba in più a ogni suo cliente, ma poi, con il callo che aveva sulla nocca del mignolo, riusciva anche a muovere l'asta della bilancia per alzare il peso senza che nessuno se ne accorgesse. E fino a ottantotto anni, ogni inverno, era in piazza a Rimini a vendere le vongole, i garagolli e le lumachine. Mi chiamava "calèin" e fu lei, quando avevo ancora sette anni, a mandarmi sul lungomare a vendere ai bambini della Colonia Modenese, per un soldo l'una, le pesche "tocche" (mentre quelle buone restavano in negozio). Poi da solo iniziai a vendere anche le conchiglie Regina, chiuse, a due soldi come un bicchiere di lupini, quelle che andavo a raccogliere d'inverno sulla spiaggia ("perché quella volta se ne trovavano uno scatafascio"). E vendevo anche le cartoline, le madonne con la capasanta e tante caramelle, ogni giorno un sacco da venticinque chili: le Topolino e, quelle a forma di dado, le Novecento. In tasca avevo i soldi pure per andare al cinema. Come il Tarzan dei film, ricordo che mi divertivo a salire sugli olmi che un tempo andavano da Spontricciolo fino a Bellariva. Cercavo i nidi di fringuelli, verdoni, verne e passeri, perché quella volta ce n'erano e se ne trovavano davvero. A quel tempo, a bottega, si faceva tutto a mano (da noi non era come in centro, non arrivava la corrente e ci si faceva luce coi lumi a petrolio e le candele) e serviva una persona già solo per girare la forgia che alimentava il fuoco per riscaldare il ferro. Mio babbo era un fabbro molto bravo: da Milano Marittima a Senigallia venivano tutti da lui a Riccione ("quando era la capitale delle poveracce") a farsi fare i ferri per pescare le vongole, dicevano che così riuscivano a pescarne un quintale in più. E noi non abbiamo mai fatto la fame, perché il fabbro era un mestiere con cui ce la si cavava. Ricordo che mio nonno mi portava con sé a prendere "l'affitto" da tutti i contadini che stavano nella zona ora occupata dall'aeroporto, perché ognuno di loro passava in bottega a farsi fare la péroga, l'admìra, il coltro, la zappa e poi saldavano in natura con la farina del raccolto, a volte di granturco (che finiva al maiale) ed altre invece di grano (che poi portavamo a macinare da Piròun, al mulino qui a San Lorenzo). Io, però, vendendo le conchiglie e le altre cianfrusaglie, in un giorno solo, guadagnavo gli stessi soldi che mio babbo faceva in una settimana. E' per questo motivo che, nonostante avessi imparato il mestiere, non diventai fabbro come mio babbo e come il babbo di mio babbo. (...)
(...) Quella di mia nonna, alla borgata Abissinia, era la Riccione che già aveva iniziato a vivere di turismo, grazie a personaggi, anche molto importanti, che venivano qui in villeggiatura, ben prima che venisse scelta da Mussolini per le proprie. Non andrebbe scordata la lungimiranza di personalità locali, come il conte Martinelli, il proprietario di gran parte della zona ora definita “marina” (l’area, sotto la ferrovia, che verte attorno a viale Ceccarini, dal porto all’Abissinia). Martinelli si decise a vendere i lotti del suo terreno, tracciandone i confini, su e giù, con carretto e cavallo. Questi lotti erano di dimensioni molto estese, impensabili per quei tempi, ma la sua non fu una scelta casuale o avventata. Le dimensioni erano così ampie, perché erano rivolte ad attrarre l’interesse di persone con grandi possibilità economiche. L’idea di una “città giardino”, all’avanguardia per quei tempi, è opera sua. Tuttora la zona dell’Abissinia è tra le più belle di Riccione, con viali larghi e alberati che non si ritrovano altrove e, tra un viale e l’altro, tutti perpendicolari tra loro, vi sono gli spazi dove vennero edificate, dai primi del Novecento, le ville signorili con ampio giardino che ancora oggi è possibile ammirare. Da qui il passo fu breve. Già allora, per citare una personalità di spicco tra le tante, so che uno dei sindaci di Roma più amati, Ernesto Nathan, trascorreva qui i mesi estivi in una villa su viale Ceccarini. Di origine ebrea, fu il primo sindaco a finanziare la scuola pubblica, affinché cultura e soprattutto istruzione fossero alla portata di tutti. E’ innegabile, però, che l’arrivo della famiglia Mussolini negli anni Venti contribuì enormemente a promuovere e rilanciare l’ immagine di Riccione presso molti altri personaggi in vista. Anche per noi era così: dietro casa nostra c’era la villetta che affittavamo d’estate. A quei tempi e nel primo dopoguerra, l’affitto della stagione, per un riccionese, non era come oggi il ritorno di un investimento economico, ma piuttosto ciò che serviva a portare a casa per tutto l’anno il grano, le mele, il vino, le patate e la legna. Perché quando si avevano queste cinque cose in casa, allora si era a posto: con la farina si facevano le tagliatelle e la piada, con una damigiana di vino e 50-60 quintali di legna si riusciva a passare l’inverno, con mele e patate si restava in forze. L’affitto per noi riccionesi era la sussistenza dell’inverno e la certezza di arrivare alla primavera. (...) (...) I riccionesi di una volta erano abituati a parlare in dialetto e in casa da me, ad esempio, era il modo in cui si esprimevano tra loro mia nonna e i miei zii, dunque io lo comprendevo perfettamente, ma non potevo azzardarmi a parlarlo, perché mi avrebbero subito ripreso e rimproverato. Parlare italiano, nelle zone di Riccione in cui arrivavano i signori, quelle al mare, come l’Abissinia dove abitavo, era un mezzo di elevazione sociale. Così quando, ad esempio, nel dopoguerra arrivava la signora Orlandi, i miei mandavano avanti me, perché parlavo un italiano corretto e fluente. Altrove invece, sopra la ferrovia, l’abitudine di parlare dialetto, in famiglia e fuori, piccoli e grandi, si conservò fino agli anni Sessanta e oltre. Era una Riccione molto diversa da quella di oggi, ma di cui posso raccontare perché l’ho vissuta fino agli anni Sessanta. Dagli anni Trenta fino ad allora, infatti, era davvero cambiato molto poco. E’ stato poi, con il boom economico, che i mutamenti sono stati esponenziali. A quel tempo bastava poco per essere fuori dal Paese (il primo nucleo di Riccione sorto lungo la via Flaminia): “con due passi si era fuori da Riccione” e si entrava in un altro quartiere, un altro ghetto, perché nel mezzo c’erano i campi ed era chiaro dove finisse uno e dove cominciasse l’altro. Non è come oggi che, per uscire dal centro, tocca arrivare fino a Coriano. E comunque anche il Paese, sulla vecchia via Flaminia, aveva già iniziato a espandersi. Poco prima della guerra, su via Santorre di Santarosa, avevano edificato i “palazzoni”, le case dei ferrovieri, assieme alla centrale elettrica. E su via Diaz, già dopo il terremoto del 1916, avevano costruito i “casermoni”, che erano riservati alle persone meno abbienti. Erano gran lavoratori, gente capace, uomini e donne, di fare venti ore al giorno negli alberghi d’estate per rimediare sì e no da mangiare d’inverno. E allora, dove c’era la fame vera, talvolta toccava anche arrivare ad arrangiarsi per mettere qualcosa sotto i denti. Dell’Abissinia invece, dove abitavo io, si poteva dire che fosse la zona dei benestanti. Accanto al Grand Hotel, Ceschina aveva addirittura costruito quello che comunemente veniva chiamato “il grattacielo”, perché sembrava davvero tale, tra tutte le altre case che non andavano oltre i tre piani e i sei metri d’altezza. Voi a sentirla adesso, quella parola, pensate a quelli americani, ma per noi, quella costruzione che era il triplo delle altre, un grattacielo lo era davvero. Ed è ancora lì, sopra il campetto di calcio del prete. Ora ce ne sono cento altre di quell’altezza e molto più alte ancora, quindi non ci si fa nemmeno caso, ma il grattacielo è sempre lì. (...) (...) Dell’altro lato di Riccione, verso nord, ricordo quando si prendeva il filobus per Rimini. Non è come adesso, non c’erano mica i numeri a distinguere una fermata dall’altra. A quel tempo, era il bigliettaio a bordo che le chiamava a voce alta, una ad una. Ed ogni fermata era il nome di un borgo, perché non c’era una fila continua di edifici ed era chiara la separazione nel passaggio dall’uno all’altro. Così sulla strada del lungomare, partendo da Marina, per prima chiamavano la fermata di Fogliano: il vecchio nome del borgo che ora comunemente viene detto Alba e che si estende sulle numerose terre che appartenevano al conte Mattioli. Anche lui ha fatto la fine di tutti gli altri possidenti: finché gli riuscì, amministrò in proprio le sue proprietà, poi, anche per andare incontro agli eredi, cominciò a lottizzare e vendere. Sulla strada, oltrepassato il borgo Fogliano, quella volta c’era il conservificio Amati, per le vongole, e un po’ più avanti, sulla destra, si trovavano la colonia Modenese (nello spazio occupato ora dal pattinaggio) e di seguito, sulla sinistra, la colonia Ebraica (detta anche Ose, Organizzazione Sanitaria Ebraica), proprio alla fermata di via De Amicis (la zona allora nota come ghetto Matteoni, dal nome della famiglia che per prima vi aveva aperto una pensione). Poi, superato il Marano, si era già nel comune di Rimini e, ancora quartiere dopo quartiere, si superavano le fermate di Miramare (un bar con qualche altra casa), quindi Rivazzurra, Marebello, Bellariva, fino a Marina Centro. Sopra la costa, invece, Riccione era in gran parte campagna. A San Lorenzo e alle Fontanelle, ad esempio, non avevano neanche il forno. Ed era tenuta ad orto anche tutta quella zona che fiancheggia il Villaggio Donna Rachele. (...) (...) Quella volta aveva davvero senso che Riccione venisse chiamata “la Perla Verde dell’Adriatico”. Era fitta di pini marittimi. Ricordo gli immensi giardini delle due ville accanto alla casa di Zaccaria, che andavano da un viale all’altro, con pini centenari che tre persone non sarebbero riusciti ad abbracciare. Ora, invece, ne sono rimasti solo due, alti ancora una ventina di metri. Quando li si doveva potare, mica si saliva con le piattaforme come oggi. C’era Pinati, quello dei casermoni di via Diaz, che se ne andava su da solo con la sega. Tra le case c’erano i tigli, quelli che lasciano tutto quel profumo, le file di alberi da frutto e gli orti. Di sera era normale vedere le lucciole e, tra le cataste del legno per l’inverno, spesso trovavamo le tartarughe di terra e i “baghini ricci” (questo è il termine con cui qui, ancora, vengono chiamati i ricci che da adulti, per il loro muso schiacciato, sembrano quasi maialini, “baghini” in romagnolo). E tutto questo sparì quando, con il boom degli anni Sessanta, iniziò l’edificazione selvaggia. Oppure forse era inevitabile ed, in fondo, non è cambiato nulla. Anche ora un riccionese, appena può, si fa la casa. Adesso sono tutti appartamenti, ma quella volta ci si comprava la terra e poi ci si costruiva sopra il villino, perché la terra non costava come oggi. Qui già costava un po’ di più, ma oltre l’Abissinia la si acquistava davvero con due lire perché erano tutte terre sabbiose (la sabbia arrivava fino a viale Milano, prima che costruissero il lungomare) che non davano nessun frutto e dunque non avevano valore, qui e altrove. (...) (...) Ancora negli anni Cinquanta, però, Riccione continuava ad essere sempre la stessa: quella del periodo pre-bellico. Ricordo ancora lo “scheletro” dell’hotel Trieste (sul lungomare, accanto al Ritz e al Palazzo Savioli), rimasto lì per decenni, almeno fino alla speculazione degli anni Sessanta. Quando c’era il circuito motociclistico cittadino, eravamo tutti talmente matti da salirci nonostante il pericolo, perché era l’unico punto dal quale si poteva vedere tutto il percorso sul lungomare. La città era tagliata in due dalla ferrovia e, da un lato all’altro, si attraversavano i passaggi a livello. Non c’erano i sottopassaggi, nemmeno quello al porto. Lungo la strada ferrata c’erano molti caselli ferroviari, ciascuno col suo casellante e le sbarre: in via Verdi (dove è rimasto, anche se in disuso, e “dove ogni tanto se ne ammazzava uno”), in viale San Martino (ora chiuso e rimpiazzato dal sottopassaggio di viale Da Verrazzano), un altro alle Fontanelle e altri ancora. Anche viale Ceccarini era molto diverso da come è adesso. Sull’ angolo destro del lato mare, nei pressi del sottopassaggio, oggi c’è il condominio Fabbri, che è stato costruito solo verso la fine degli anni Sessanta. Me lo ricordo bene, perché ci andò ad abitare mia zia, l’ostetrica che stava in Libia, quando venne cacciata, come tutti gli italiani, da Gheddafi. Scelse quello, perché era una delle prime case moderne, “così poteva avere il riscaldamento in casa”. Lì, invece, prima erano tutti orti, sotto e sopra la ferrovia, pure dove abito ora (in una traversa di via dei Mille), e fino al porto. Anche qui c’era un passaggio a livello, a mano. Salendo dal mare, sul lato destro sopra la ferrovia, c’era il casello della famiglia Antonioli, responsabili della sicurezza, i quali, giorno e notte, dovevano accorgersi del campanello del treno in arrivo e dunque alzare a mano le sbarre. Talvolta, raramente, poteva pure accadere che il treno passasse con le sbarre alzate, perché i macchinisti si scordavano di suonare il campanello in prossimità del casello (specie i treni che arrivavano da Ancona senza fermarsi in stazione). Erano ancora treni a vapore, le “vaporiere”. Ricordo noi bambini, quando con i preti la prendemmo per andare a Loreto (“un’avventura, come andare nel Mato Grosso”), che mettevamo la testa fuori dal finestrino durante le gallerie di Pesaro e Ancona e, arrivati, eravamo tutti con le facce nere per il fumo. Non sono scomparsi solo i caselli ferroviari, ma anche alcuni mestieri. Ad esempio non ci sono più gli ambulanti: ricordo che passavano con il loro carretto, urlando dalla strada («Soda, saponi, saponette, detersivi, dentifrici!») e, nel silenzio assoluto di quella volta, le donne sentivano le grida e uscivano. L’ultimo arrotino riccionese è scomparso pochi anni fa e lo stesso è avvenuto per il market ambulante (ricordo ancora Battarra di San Lorenzo e Dante che stava ai casermoni di via Diaz). Le nostre case sono già piene di tante cose. Se qualcosa si rompe, allora lo si butta e lo si ricompra in un negozio. E’ vero: alla vostra generazione, per far comprendere meglio come si viveva, occorrerebbe togliere oggetti. Anche i frigoriferi, ad esempio, sono arrivati negli anni Sessanta. Subito dopo la guerra iniziavano, piuttosto, ad esserci le ghiacciaie, quelle in legno, imbottite con lo zinco. E tutte le mattine, prima con un furgone a pedali poi con la Lambretta, passava il ghiacciaiolo. Non a caso. Sapeva già, dietro accordi precedenti, a chi doveva fornirlo, villeggianti o riccionesi che fossero («Guarda che sabato arrivano i signori, comincia a portare il ghiaccio.») Il primo televisore, invece, l’ho visto negli anni Cinquanta, proprio agli inizi delle trasmissioni. A Riccione lo comprarono quelli del bar Zanarini di via Ceccarini, frequentato dal jet set di allora. Ed io ero presente. C’erano un sacco di persone, capirai. Mi ricordo bene quella sera perché, quando poi sono tornato a casa, mia nonna e mio zio Arturo mi chiesero dov’ero stato ed io risposi che ero stato da Zanarini a vedere la televisione ma che mi era sembrata “un campionario per la stoffa” per tutte le righe e quadretti (e le immagini sfocate sullo sfondo) che avevo visto sullo schermo. (...)
(...) Quindi concluse le scuole, prima l’avviamento e poi il tecnico commerciale, per me fu normale, nel ‘52, proseguire la mia vita dedicandomi completamente all’impresa di famiglia. Erano gli anni in cui il turismo a Riccione iniziava ad arrivare sempre più forte, specie quello dei tedeschi. Aprivano fiumi di scuole private che insegnavano la loro lingua. E non ce n’era uno, tra i riccionesi, che non le seguisse. Pure gli spazzini. E anch’io, che a scuola avevo imparato l’inglese e il francese. Perché, dalla mattina alla sera, per i cinque mesi che durava la stagione, in negozio si parlava solo il tedesco. E, se volevi lavorare, dovevi conoscerlo. In quegli stessi anni, dal dopoguerra in avanti, a casa invece iniziò una sorta di ripudio del dialetto. Sarebbe stata una brutta abitudine. Di fronte a un turista non potevi farti vedere che parlavi il dialetto, era come mostrarsi di un lignaggio inferiore. E questo valeva anche per i soprannomi che tutti i riccionesi avevano (come noi, Pipèin prima, Damèin poi). C’era la volontà comune di elevarsi, come quando mio padre (oltre che in onore al conte Pullé) scelse per me un nome che non avesse un diminutivo e non potesse essere storpiato in un soprannome. Con i riccionesi c’era un patto tacito di mutuo soccorso, quello dei librettini, perché molti riuscivano a lavorare e guadagnare solo per la stagione estiva, così le famiglie in difficoltà durante il resto dell’anno venivano in negozio sapendo che avrebbero potuto comprare a credito. Allora ci si conosceva tutti e ci si fidava l’uno dell’altro. Se non si avevano i soldi, si poteva far segnare sul librettino verde che in tanti portavano con sé. E mio padre segnava sul suo. Anche se, a forza di avere clienti col libretto, anche lui a sua volta doveva poi ricorrere al credito di amici e fornitori per arrivare a pagare i pesanti acquisti dell’inverno. Poi quando un cliente, con i soldi della stagione, riusciva a coprire il suo debito, allora poteva strappare il librettino. E spesso, dopo qualche mese, finiva a comprarne uno nuovo alla libreria Minerva di viale Ceccarini. Così si ricominciava daccapo. Gli anni Cinquanta furono anche quelli in cui mio babbo, che cercava di essere sempre un passo avanti agli altri, lesse su una rivista americana dei primi negozi self-service. In Italia c’era già stata un’esperienza del genere (mi pare si chiamasse “La formica”, a Milano), ma fallì. Ora, invece, c’erano tutte le premesse perché andasse meglio. L’industrializzazione stava aumentando e allargando l’offerta di beni prodotti, dunque si trattava di creare nuovi bisogni perché venissero acquistati e nuovi spazi in cui venderli. Era l’evoluzione del commercio. Quello che voi ora studiate sui libri come marketing, noi allora lo vivemmo e sperimentammo sul campo. Ricordo che, di sera, dopo il lavoro, ci mettevamo tutti assieme a preparare le bustine del lievito, che allora ancora non esistevano, così come tanti altri prodotti che non erano confezionati, ma che noi preparavamo in dosi per poterli vendere meglio. Non era come adesso, allora in confezione c’era un centesimo di quello che vedete oggi sugli scaffali. La pasta, ad esempio: a quel tempo in scatola c’era solo la Buitoni, perché era l’unica azienda a lavorare con l’estero, mentre il resto dei produttori inviava la pasta in grandi sacchi o cartoni da 10-15 chilogrammi che poi veniva venduta sfusa. E questo valeva anche per tutto il resto: conserve, marmellata, ogni altra merce. Non c’era nulla di quello a cui tutti oggi siamo abituati. E cercavamo continuamente di industriarci, come, ad esempio, fece mio padre con le damigiane d’olio, collocandole sul ripiano più alto (così, vicino al soffitto, la temperatura restava più calda e lo manteneva meglio) e inventandosi una tubatura che scendeva verso il basso, fino all’altezza del cliente, il quale, da un rubinetto, poteva riempirsi fin dove voleva la bottiglia che si portava da casa. Come si fa oggi per la birra alla spina. Erano i tempi dell’Idrolitina: chi voleva l’acqua gassata se la faceva con la polverina. Oppure si usava il seltz, che veniva prodotto anche a Riccione nella fabbrica di Tonino Barilari, in Paese: da un sifone, premendo la maniglia, si spingeva il seltz compresso in una bevanda rendendola frizzante. Qui a Riccione c’era anche la fabbrica del ghiaccio, in via XIX Ottobre (il viale, parallelo alla ferrovia, che dalla stazione porta alla via Panoramica), mica c’erano i frigoriferi. E c’era chi girava col triciclo a pedali a vendere casa per casa le stecche di ghiaccio, a pezzi interi o a quarti. E nei bar, se volevi una granita, ti grattugiavano del ghiaccio, lì sul momento, e ci versavano sopra dello sciroppo di amarena. Era semplice sì, ma era la fine del mondo, buonissima. E per noi era il regalo che nostro padre ci donava per ferragosto, per il Natale estivo. Era un mondo totalmente diverso. Tra il ‘52 e il ‘53 aprimmo quindi un altro punto vendita in viale Diaz: un supermercato, il secondo in tutta Italia. Non era come in quello di viale Dante dove si poteva vendere sia lo sfuso che il confezionato, perché la licenza di supermercato all’epoca prevedeva la vendita solo della merce in confezione. Facemmo un sacco di debiti per raggranellare i soldi necessari, prima per l’acquisto del lotto, poi per edificare uno stabile al cui piano terra c’era il negozio (anche se in seguito, per appianare i troppi debiti, mio padre fu costretto a vendere gran parte dello stesso stabile). E tutta la famiglia era impegnata nelle nostre attività: io e mio padre gestivamo il negozio di viale Dante; mia mamma e mio fratello Riccardo, poi con mia sorella Loretta alla cassa, si occupavano del supermercato in viale Diaz. Per più di un decennio, comunque, la zona sopra alla ferrovia, quella attorno a viale Diaz, restò deserta come prima della guerra. A fianco del supermercato c’era ancora Pritelli, quello che vendeva la legna e il carbone. Solo dopo il ‘63, quando vi trasferirono la nuova chiesa di San Martino, la zona iniziò ad animarsi e viale Diaz a popolarsi, ad essere trafficato. Accanto a noi, al posto di Pritelli, venne costruito il condominio Gaspari, con cento e più appartamenti. E faceva una gran differenza. Era la mania che si era sparsa nella Riccione di quegli anni, quella di costruire grandi palazzi, tutti più o meno come grandi alveari. (...)
(...) Quegli anni successivi alla guerra furono intensi e frenetici, per tutta Riccione. Il rilascio delle licenze per costruire nuovi edifici privati avvenne nel rispetto del piano di ricostruzione approvato dal ministero nel 1947 e dei successivi regolamenti comunali, che in parte travisarono lo spirito del precedente piano ministeriale, perché altrimenti la città non avrebbe mai potuto adeguarsi ai nuovi tempi e diventare quello che è ora. In origine, nell’immediato dopoguerra, il piano di ricostruzione approvato dalla prima giunta comunale, con il sindaco Quondamatteo e l’architetto Savorgnan, infatti non fece altro che fotografare l’esistente, bloccando l’espansione territoriale ed edilizia della città: quindi i settanta alberghi avrebbero dovuto restare tali, le ville non avrebbero dovuto oltrepassare i due piani, gli indici di costruzione erano molto bassi. Con i primi segni di sviluppo, però, la gente iniziò ugualmente a costruire. Si presentava un progetto su due piani, quelli previsti dal piano regolatore, e poi invece se ne costruivano quattro. Era un fenomeno diffuso, lo facevano tutti. Si interveniva, certo. Con una prima multa o con una denuncia al pretore che sanzionava poi la sospensione dei lavori. Nell’uno e nell’altro caso, la gente non se ne curava e andava comunque avanti in attesa della causa dove poi andava incontro a una nuova multa. C’era chi pagava 5mila lire e chi, con gli avvocati adatti, ne pagava cinquecento. Solo per pochi si arrivò a cinque giorni di carcere, a Rimini, quando le prigioni erano ancora al castello malatestiano. In tutto il periodo che mi vide impegnato in prima persona nell’ambito dei lavori pubblici e come sindaco, dal 1951 al 1963, la nostra amministrazione cercò di far applicare la legge, anche con severità verso conoscenti e amici, ma in generale tutto sfuggì al nostro controllo. L’Italia si risollevava e cresceva. E l’intera Riccione cresceva ad un ritmo ancora più esponenziale, perché qui continuava ad arrivare gente, sempre più immigrati dalle campagne, sempre più turisti d’estate, quindi anche il valore dei terreni aumentava di anno in anno. Questa è la ragione per cui a chiunque conveniva costruire, ad ogni costo. Dall’entroterra infatti continuava ad arrivare gente che vendeva per quattro soldi il proprio podere per potersi trasferire qui. Le campagne si spopolavano anche per effetto di una legge dello stato che incoraggiava chi abbandonava l’attività agricola, concedendo fondi una tantum per chi eliminava il proprio parco animali, cessando la riproduzione e l’allevamento. Quindi la gente vendeva la terra e poi scendeva a Riccione a cercarne altra. Nel giro di 4-5 anni, infatti, crescemmo da poco più di 10mila abitanti a 16-17mila. E non c’erano problemi ad assorbire questi nuovi arrivati, perché qui c’era lavoro per tutti. A quei tempi il turismo andava così bene che si costruivano 50-60 alberghi nuovi ogni anno e si era sempre in cerca di nuova manodopera. E nel fine settimana tutta questa gente si aiutava, gli uni con gli altri, per costruirsi la casa sul terreno che aveva acquistato. Ci sono intere zone che noi allora consideravamo periferia e che vennero edificate in quegli anni. Per dare un’idea di come fosse la Riccione dell’immediato dopoguerra, mi ricordo di quando nel 1948, fidanzandomi con la ragazza che poi divenne mia moglie, iniziai a frequentare casa sua in via Galliano, quasi in Paese. Da lì, a quel tempo, mio suocero riusciva addirittura a vedere la chiesa di San Martino, quella sulla vecchia statale (l’attuale corso Fratelli Cervi). E dietro la casa aveva un lotto di terra, tenuto a vigna, che andava oltre via Santorre di Santarosa (quando ancora nemmeno esisteva). E all’altro lato del recinto arrivavano i buoi ad arare. Insomma la campagna era qui, l’avevamo in casa. Chi arrivava da fuori, però, non si spingeva fino al vecchio centro abitato, ma comprava i terreni sopra la vecchia statale oppure a San Lorenzo, dove costavano meno. Poi, chi riusciva a migliorare le proprie condizioni, si spingeva più verso il centro, più verso di noi, lasciando il posto a qualche altro appena arrivato. Gli ultimissimi o i meno abbienti in assoluto si fermavano ancora più lontano, come nella zona dove oggi sorge l’Aquafan, in quel gruppo di case lungo la strada che porta a Scacciano. Quello all’epoca veniva chiamato il “ghetto dei marocchini”, perché erano le case dei marchigiani che erano saliti dal sud, avevano acquistato i terreni meno costosi e poi, nel tempo libero dal lavoro, sabato e domenica, marito, moglie e figli, tutti assieme, l’un con l’altro, si costruivano da soli le proprie case. Insomma, c’era spazio per tutti e tutti si davano un gran daffare, a lavorare e a costruire, anche perché c’era davvero da fare per tutti. Riccione in quegli anni era come un immenso cantiere. Così anche i prezzi della terra crescevano e chi aveva soldi ne investiva. Accadde anche a me, quando nel 1961, assieme a due amici, costruimmo la pista per i go-kart nella zona accanto all’attuale stadio. A quell'epoca si stava procedendo con la lottizzazione di tutta l'area di proprietà del conte Mattioli, che nella zona Alba andava dalla statale alla ferrovia e da via Romagna a via Emilia. Si iniziava a costruire in uno spazio immenso. Il nostro terreno, a 9mila lire al metro, complessivamente costava undici milioni. A distanza di un solo anno e mezzo, ce ne offrivano novanta. E credevamo di poterci guadagnare ancora di più, perché il prezzo di un metro quadro continuava a crescere di 2-3mila lire all’anno, finché arrivò il 1963, l’anno della crisi edilizia, in cui tutto questo crollò. Così anche noi, prima di rompere la società, riuscimmo a cedere il terreno, rientrandoci solo per la metà di quanto avevamo speso all’inizio, appena due anni prima. La crisi edilizia del 1963, in realtà, coinvolse tutta l’Italia, non la sola Riccione, che, anzi, continuava a vivere del boom turistico e che negli anni Sessanta raggiunse il suo culmine. Qui arrivavano treni carichi di tedeschi, tutte le settimane, a gruppi di 2-3mila persone ogni volta. E, siccome tutta questa gente andava poi distribuita tra alberghi che a quel tempo non superavano le 30-40 camere, allora gli albergatori li accoglievano già in stazione, tenendo alto un cartello con il nome del proprio hotel, così che i dirigenti della Touropa (l’agenzia che organizzava questi viaggi) potessero smistarli sul momento tra questa o quella destinazione. I prezzi di quella volta erano bassissimi: quando gestivo l’albergo Colombo, dal 1955 al 1961, la retta giornaliera andava dalle 1.100 lire di giugno alle 1.500 lire di agosto. E la stagione era molto lunga: si lavorava dall’inizio di maggio, coi primi tedeschi, fino a settembre inoltrato. Chi riusciva, come gli alberghi della zona Alba, a lavorare con le agenzie, specie se direttamente con quelle tedesche, si garantiva le camere piene per tutto questo periodo. Dalle mie parti, all’Abissinia, dalla ferrovia fino al mare, c’erano diverse ville di proprietà che si popolavano solo d’estate: erano di facoltosi imprenditori e proprietari terrieri, da Bologna, Modena e altre grandi città, che accompagnavano l’intera famiglia al mare, con la donna di servizio e tutto il resto, da giugno a settembre, raggiungendola nel fine settimana in treno (quello dei mariti che si ricongiungevano con le mogli lasciate sole per tutta la settimana veniva scherzosamente chiamato “il treno dei becchi”). E ovunque, tutti coloro che non avevano un albergo facevano il possibile per affittare la loro stessa casa. Così ricordo che all’Abissinia, quando c’erano quattro lotti confinanti, ciascuno con al centro una piccola casa, i riccionesi per tutta l’estate la lasciavano ai forestieri e riparavano in quattro “capanne” (camera, cucina e gabinetto) che venivano costruite tra i quattro lotti, una sull’altra sullo stesso confine, in modo da risparmiare sui muri. (...)
(...) Nelle nostre vite la mezzadria proseguì, finché poi non giunsero una serie di disgrazie familiari che ci convinsero a cederla e a cambiare tutto: casa e lavoro. Nel 1955, in agosto, ebbi a Rimini un bruttissimo incidente stradale. Ci rimasi con una gamba maciullata e, per evitare l’amputazione, me la tennero immobile, in trazione, per quaranta giorni. I due anni successivi, quasi per intero, li trascorsi in ospedale. Fu in quel periodo che venne a mancare mio padre, a causa di un altro incidente, nel 1956, che lo coinvolse con mio fratello. Erano assieme, sul motore, lungo la strada tra Rimini e Coriano e si scontrarono frontalmente con uno che arrivava in senso contrario. Morì anche lui, mentre mio fratello rimase in coma per diverso tempo, tant’è che non si seppe mai quel che effettivamente avvenne. Così, dopo tutto quel che era accaduto, senza mio padre e con noi figli ancora alle prese con i postumi dei nostri incidenti, sapevamo tutti che, a quelle condizioni, non avremmo più potuto tirare avanti. Eravamo anche malvisti e compromessi per le dispute che avevamo avuto in tutti quegli anni col fattore, che, per conto del proprietario, decideva sulla conduzione del campo e degli animali, imponendo poi le sue scelte sul mezzadro che doveva eseguirle. Tra noi ed il fattore non era una questione politica, nemmeno negli anni Trenta, al di là della sua amicizia stretta con il podestà fascista di Coriano, perché a quel tempo nessuno si azzardava a parlarne apertamente. Il punto era che, per quanto il fattore dicesse di prendere anche le nostre parti, in realtà prima di tutto faceva gli interessi del padrone e non mancarono le occasioni in cui finirono, lui con mio padre e mio zio, per prendersi a male parole. Non era facile e non solo per noi. E’ che non era facile la condizione di mezzadri. Si lavorava e si viveva con le mani legate, per qualsiasi cosa. Ad esempio, al momento in cui decidemmo di andarcene, non avevamo ancora ottenuto il permesso di poterci costruire un bagno fuori casa. In tutto quel tempo, eravamo obbligati a fare i nostri bisogni in giro per l’aia. E, quando ottenemmo quello di andare almeno nella stalla, l’unico spazio disponibile era tra il muro e la vacca, largo neanche un metro, soprattutto con il rischio di restarci secchi se l’animale avesse iniziato a scalciare. E questo poteva capitare ogni volta che ci entravi in quella stalla, anche quando si andava durante il giorno a pulirla col forcone. I nostri genitori ci ripetevano continuamente di stare attenti. Fu solo nel dopoguerra, con le prime lotte sindacali, che iniziarono a rispettarci di più e costruirono un’altra stalla più grande. Nel 1957 si aprì dunque la trattativa per i soldi delle “stime del podere”. Accadeva così ogni volta che mezzadro o padrone decidevano di rompere il loro reciproco accordo di terra contro lavoro. A maggio un perito per ciascuna parte veniva a stimare lo stato del grano, delle viti, del frutteto, degli animali in stalla, quindi del servizio reso dal mezzadro per accrescere il valore del fondo del padrone, così che, andandosene, gliene potesse essere riconosciuta una parte. La stima che finiva al mezzadro che se ne andava, però, non veniva liquidata dal proprietario della terra, ma da quello che subentrava al suo posto. In quell’occasione, non si trovò un accordo tra il nostro perito e quello del padrone, dunque occorse rivolgerci al cosiddetto “terzo”, cioè un ulteriore perito. Alla fine ce ne venimmo via con un milione e trecentomila lire “di stime a cancello chiuso”, cioè di tutto ciò che c’era al suo interno e che era tutto di proprietà del padrone. Noi di nostro, sul podere, non avevamo nulla, a parte il lavoro. Dopo aver lasciato il podere, per qualche mese abitammo in una casa poco distante, al ghetto Caffarelli, così da avere il tempo necessario per costruircene una nuova a Riccione. Avevamo acquistato, attraverso un mediatore, un lotto di terra dal dottor Andrea Cortesi, il farmacista che a Coriano era l’unico fascista benvoluto da tutti, uno con il quale si poteva ragionare e che non faceva problemi a nessuno, neppure se serviva qualcosa fuori orario. In seguito, sposando la figlia del dottor Basigli, gestì a Riccione anche la farmacia del Paese. Nel 1958 ci trasferimmo tutti, sulla circonvallazione, prima del ristorante Ombra, che allora era una piccola trattoria con la stalla sul retro. Non era mica come adesso. A quel tempo, lì, non c’erano neanche le case. Io mi misi in proprio. Appassionato di meccanica com’ero e avendo studiato per corrispondenza alla scuola Radio Elettra di Torino, aprii un’officina accanto alla casa, iniziando il lavoro di elettrauto che poi mi ha accompagnato per tutta la vita. Intanto le mie sorelle si erano sposate, ma in famiglia continuavamo ad essere tanti. Non era facile far quadrare i conti, specie con tutti i debiti che avevo fatto per costruire la casa e aprire la mia attività. Ricordo che mi ci volle una settimana a firmare tutte quelle cambiali. Ci arrangiavamo tutti, come potevamo: mio fratello lavorava per un’impresa edile (ma la paga era quella che era e metà gliela passavano in nero), mio zio si dava da fare per quattro soldi da un contadino lì vicino e sua moglie teneva a bada polli e conigli che avevamo dietro la casa, mentre mia mamma era sempre pronta a lavorare dove serviva. Non si riusciva però a pagare del tutto questa benedetta casa. Fummo costretti a dividerci. Mia mamma raggiunse una sua cognata in montagna, dove lavorava come cuoca, e mio fratello, sposandosi, andò a vivere per suo conto. E, per far quadrare i conti, affittammo un piano ad un inquilino. Io misi su famiglia nel 1964, ma anche noi, a metà degli anni Settanta, lasciammo quella casa, spostandoci in un capannone nella zona del Villaggio Papini, che, un po’ alla volta, in 5-6 anni, divenne la casa nella quale viviamo tuttora. (...)
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