La Città Invisibile - Il Viaggio dei Deportati

Athos e Goffredo, soldati dell'esercito italiano allo sbando dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943, vengono entrambi, di lì a poco, catturati, disarmati e deportati dai tedeschi nei campi in cui trascorreranno, assieme ad altri 600mila soldati italiani, in condizioni spesso molto misere, quasi due anni delle loro vite.

L'11 settembre, a Gradisca, per Athos inizia un viaggio tra i campi di deportazione di Thorn, Gotenhafen, Bromberg, Rostock e Lubecca, fino alla liberazione e al ritorno a casa il 20 settembre 1945. Goffredo viene catturato a Laces il 9 settembre, venendo internato a Hohenstein, Meppen, Dorsten, Minden, Haldern, Düsseldorf, e torna a casa il 28 agosto 1945.
Seguono due estratti dai loro racconti: per Goffredo la notizia dell'armistizio, il tentativo di fuga e la cattura vicino Bolzano; per Athos alcuni episodi dal trasferimento da Bromberg a Rostock (le cosiddette "marce della morte" dei prigionieri aggregati ai tedeschi in fuga dall'avanzata dei sovietici).
Oltre ai loro ricordi, altri due estratti provengono dalle testimonianze, vissute in terza persona, di Franco (il cui padre riuscì a scampare all'otto settembre, trovandosi a poca distanza da casa, a San Clemente) e di Ennio (che racconta dell'attesa per lo zio militare, disperso nei campi di deportazione tedeschi, la cui salma tornò a Riccione solo quindici anni dopo).
Nota: la mappa dei campi di concentramento e di deportazione in Europa è tratta da "L'altra Resistenza. I militari internati in Germania" di Alessandro Natta (Einaudi, 1997).

 

Goffredo a 16 anni(...) Io avevo già sentore che, con i tedeschi, per noi sarebbe finita male. Lo confidai anche a mia madre, quando la vidi per l’ultima licenza: «guarda che noi si finisce a fare le briscole coi tedeschi». Nelle caserme e nelle stesse camerate appendevano i manifesti per incitarci a combattere al fianco dell’alleato tedesco, ma, senza confidarlo a nessuno, io ero molto scettico. Mi sembrava tutto troppo finto.
Dal 25 luglio, il giorno della destituzione di Mussolini, noi in realtà eravamo già in preallarme, ma c’era grande confusione e non era semplice interpretare gli ordini che ricevevamo. Ne avemmo conferma proprio la sera dell’8 settembre, perché tra i nostri stessi ufficiali c’era chi parteggiava per i tedeschi e chi no, mentre il nostro colonnello, il grado più alto in comando, era una brava persona, ma molto anziana e, poveretto, non sapeva che pesci prendere. Dunque l’impressione era soprattutto quella che avremmo dovuto arrangiarci.
Dell’armistizio lo seppi da un nostro ufficiale, «vedrai che casino verrà fuori, una mezza rivoluzione!», mentre io stavo andando in fureria per pagare dei soldati, così ci raccogliemmo tutti nella piazza, tutti indecisi sul da farsi. Da noi vennero anche i “veronesi”, quei civili che commerciavano sulle bancarelle e che noi chiamavamo tutti così, anche se venivano pure dal Trentino. Ci dissero che i tedeschi avevano già i carri armati su una collina sopra di noi, che la nostra artiglieria alpina era già stata imbottigliata, che dovevamo organizzarci e che, se avevamo le mitraglie, quello era il momento di iniziare a sparare. Ma chi tra noi si sarebbe azzardato ad aprire il fuoco? Chi se ne sarebbe presa la responsabilità? Come avremmo potuto fare? Finì che ciascuno pensò per sé.
Alla rinfusa, sbandati, ci dirigemmo verso la stazione di Merano e montammo su un treno in partenza. Ricordo ancora il brivido che provai nel vedere lungo il fiume Passirio i corpi, senza vita, di 3-4 nostri ragazzi che si erano già messi in borghese. Erano stati gli altoatesini, coi fucili da caccia. Così, una ventina di noi, per prudenza, si decisero a tornare indietro alla caserma. Ed io con loro. Sulle mura ci accolsero alcuni nostri ufficiali, dei fascisti, urlandoci contro: «Vigliacchi! Mascalzoni! Siete usciti! Siete scappati via!» E noi a rispondere: «Ma signor tenente, ma qui cosa si capisce? Cosa dobbiamo fare?» Ma non bastò, perché, appena dentro, ci rinchiusero subito in prigione, dicendoci che, all’indomani, all’arrivo dei tedeschi, ci avrebbero fatto fucilare.
Eravamo vicino all’ingresso della caserma e, arrampicandomi sui letti a castello per affacciarmi ad una finestra, speravo di scorgere qualche ufficiale di mia conoscenza, quando entrò proprio il nostro capitano e allora io urlai con tutta la forza che avevo. E riuscii a farmi sentire. Gli dissi una bugia, che ci avevano preso proprio mentre eravamo in giro a cercarlo, e che presto saremmo stati fucilati senza una ragione. E lui così perse le staffe con il soldato di piantone, fermo davanti alla nostra porta, e gli impose di farci uscire. Scampato il pericolo, ancora una ventina, ci decidemmo ad uscire di nuovo. Ce ne saremmo andati a piedi, verso il campo militare di Laces, sopra Bolzano, e così facemmo.
A Laces era una baraonda, il campo era stracolmo di soldati come noi, allo sbando. C’erano quelli dell’artiglieria, c’erano gli alpini, c’eravamo noi fanti, ce n’erano di tutti i corpi e reparti, tutti ancora in divisa, tutti qui per proseguire poi verso la Svizzera. I tedeschi, invece, al mattino dopo, quello del 9 settembre, prima ancora di muoverci, ci avevano già accerchiato e così ci hanno fatto prigionieri e spinto di nuovo a Merano, verso la caserma del 33mo artiglieria della nostra divisione. Era molto grande, perché al suo interno c’erano anche i mezzi della cavalleria. E lì siamo rimasti tre giorni, ma senza mai entrare, i primi tre giorni dei diciotto mesi di prigionia che seguirono. Ci lasciarono tutti nel cortile, al freddo e sotto la pioggia, giorno e notte, mentre loro si occupavano di svaligiare l’artiglieria, i viveri e tutto il resto che poteva far comodo. E, per fortuna, riuscimmo di nascosto a fare un buco nel muro del magazzino e a prenderci quel che poteva aiutare a coprirci: un paio di pantaloni, 2-3 camicie, così da riempire lo zaino.
Alla quarta mattina ci spinsero di nuovo a metterci in strada, stavolta verso Bolzano, sempre a piedi. E lungo il cammino, prima di arrivare, c’era un gran rettilineo, me lo ricordo come fosse ora, con sulla destra delle enormi cabine per la manutenzione della corrente elettrica. E su quella strada ricordo i ragazzini, che facevano avanti e indietro lungo la colonna di noi soldati. Tra le mani tenevano un blocco e una penna e correvano dall’uno all’altro chiedendoci nome e indirizzo, per poter avvisare le nostre famiglie. Scrivevano “Qui è passato un vostro congiunto”, mentre ci stavano portando chissà dove. Ed io risposi a una ragazza: «Mi chiamo Goffredo Martinelli, di Montecolombo, provincia di Forlì.» E la ragazza scrisse a casa mia, che mi aveva visto passare. (...)

 

Athos a 20 anni(...) Nella primavera del ’45 i russi sferrarono l’offensiva che li avrebbe portati da Varsavia fino a Berlino. Quando i tedeschi iniziarono a ritirarsi, anche noi venimmo spostati da Gotenhafen. Eravamo una lunga colonna di uomini, di cui voltandoci non riu-scivamo a vedere la fine.
Prima ci portarono a Danzica, poi scendemmo al campo di Bromberg. A piedi, come ogni altro nostro spostamento, sempre dietro la linea di ritirata dei tedeschi. Poi da Bromberg, di nuovo verso il mar Baltico, oltre il fiume Oder, fino alla città tedesca di Rostock. E quindi verso Lubecca. Furono milleduecento chilometri di marcia, in due mesi, pieni di stenti.
Durante questo viaggio, lungo il tragitto da Bromberg a Rostock, ci fu un momento in cui ci presero i russi. Era solo un avamposto, ma abbastanza forte da presidiare il paese in cui eravamo e far ritirare i tedeschi che si erano sparpagliati lì attorno. Ma sapevamo che non poteva finire così, perché il resto delle linee russe erano ancora troppo indietro rispetto a noi.
Ricordo che ci imbattemmo in una fattoria. Lì avremmo potuto trovare di tutto. Fuori scorgevamo, anche da lontano, due enormi vasche (“due tenacci”) in cemento, delle caldaie, alte due metri, piene di patate che stavano a bollire. Non appena i russi si mossero verso quelle vasche fumanti, i tedeschi li falciarono con la mitragliatrice. Cadevano di schianto, come quando si taglia il fieno. Allora noi, nonostante la fame, rimanemmo al coperto, non ci azzardammo a muoverci. Il mattino dopo, invece, sembrava tutto più tranquillo e le patate erano ancora lì a bollire. Allora io e un mio amico ci avvicinammo. Dalle finestre della cucina della fattoria c’erano delle donne russe, delle deportate, che restavano a guardarci. E, senza neanche sapere chi fossimo, oltre all’essere entrambi prigionieri, si misero di guardia per avvisarci qualora fossero tornati i tedeschi. Quando arrivammo alle caldaie, mentre stavamo per allungare la mano e prendere le patate, ci accorgemmo che erano sotto un palmo d’acqua bollente. La fame, però, era troppa. Uno alzò il coperchio e l’altro immerse la mano. Giù, a prendere le patate. Una dopo l’altra. Le patate riuscimmo a prenderle, ma nella caldaia ci lasciammo tutta la pelle delle mani. Così, per fame. Si mangiava quello che si trovava, quando lo si trovava. Non so neanche dire come.
I tedeschi, dopo essersi riorganizzati, ci ripresero quella stessa sera. Avevano contrattaccato riuscendo ad allontanare i russi. E all’indomani ci rimisero in fila per cinque, di nuovo a marciare sulla strada. Era già pomeriggio e nevicava fitto. Da un campo i russi tornarono ad affacciarsi e, vedendoci, avevano posato le armi. Li vedevamo a occhio nudo, venirci incontro nella tormenta, senza sparare un colpo. E allora i tedeschi, appostati nel fosso accanto alla strada, di nuovo, con le mitragliatrici non ne lasciarono uno in piedi.
E’ stato questo il momento in cui, in assoluto, ho più temuto di morire. Ero terrorizzato, in balia del caso. Poco più tardi, invece, quando me la vidi ancora più brutta ma dipese da me cavarmela, riuscii a non farmi prendere dal panico.
Nella marcia da Rostock a Lubecca, quando già eravamo in territorio tedesco, io e un mio amico (era di Forlì, si chiamava Grifoni) vedemmo una fattoria e, approfittando di una sosta, ci dirigemmo lì in cerca di qualcosa da mangiare. Trovai un cassone pieno di avena, quella che danno ai cavalli, e vi affondai entrambe le mani per raccoglierne più che potevo. In quel momento mi vide il custode dei cavalli. E nel pomeriggio, quando ero già tornato nella nostra colonna, mi venne a cercare per portarmi davanti al maresciallo tedesco. Disse all’ufficiale che gli avevo rubato del grano, che dovevo essere punito. Io, dopo aver ascoltato l’interprete, risposi che non avevo rubato del grano, ma dell’avena, che ne avevo preso solo una manciata e che, se l’avevo fatto, era stato per la fame, perché erano tre giorni che non mangiavamo. Mentre parlavo, il maresciallo tedesco mi incalzava con le sue domande, continuando a puntarmi la rivoltella sullo stomaco. In quel momento, quando tutto sembrava volgere al peggio, pensavo solo a salvarmi. Così mi rivolsi direttamente al maresciallo, che era una persona anziana, chiedendogli se avesse un figlio della mia età e se, trovandolo nelle mie stesse condizioni, avrebbe scelto di ucciderlo o di lasciarlo andare. A quella domanda, l’ufficiale mi mise una mano sulla spalla, poi gettò la rivoltella su un tavolo, come se all’improvviso avesse iniziato a scottare, quindi mi disse di andarmene. (...)

 

Franco a 10 anni(...) Anche mio padre venne chiamato alle armi, nel corso della guerra, ma, avendo la fortuna di conoscere il ministro della cultura Bagli (che aveva una villa a Morciano e a cui andava ad accudire il giardino), riuscì ad evitare il servizio militare al fronte (russo) e ad essere destinato, comunque nell’esercito, come guardia costiera a Casteldimezzo, nel pesarese.
Ricordo benissimo quel che accadde l’8 settembre, all’armistizio con gli Alleati. Eravamo con mio padre a Casteldimezzo. I suoi superiori, all’infuori di un tenente, erano già scappati tutti. E mio padre ci disse: «Andate giù, tornate a casa, devo sistemare delle cose, poi vi raggiungo.» Così io e mia madre scendemmo in bicicletta per la Siligata. In realtà mio padre tardò perché il tenente gli aveva chiesto di raccogliere le armi e andare con lui in montagna dai partigiani, ma lui, sentendo dal rombo che i carri armati tedeschi erano già sulla Siligata, preferì prima accertarsi che noi stessimo bene e dunque si diresse verso Morciano.
Ricordo benissimo che io e mia madre eravamo in una lunga colonna di persone, tutte in fila sulla strada, e, dalle torrette dei panzer che ci passavano accanto, i tedeschi ci urlavano con rabbia: «Vigliacchi italiani! Traditori!». In italiano. E mia madre mi diceva: «Sta zitto! Non parlare! Guarda avanti!» Poi, quasi giunti a Morciano dopo essere stati caricati su un carretto, vedemmo arrivare dietro a noi un uomo in bicicletta vestito di nero: era mio padre. Il prete di Casteldimezzo lo aveva convinto ad indossare un suo abito, per evitare di essere preso dai tedeschi. E poi, lui che non aveva molto in simpatia i preti, ci raccontò di come il sacerdote avesse insistito: «Prendilo! Prendilo! Se vuoi salvar la pelle!» (...)

 

Ennio a 20 anni(...) Dopo la morte di mio padre, nel 1944, a diciassette anni ero rimasto l'unico maschio della famiglia, anche se mia mamma era una persona molto forte ed in gamba e riuscì a farmi continuare gli studi da geometra. Con noi vennero a vivere pure sua sorella e il marito, che aveva disertato dalla marina militare per non doversi aggregare ai repubblichini, ed è assieme a loro che poi si proseguì l'attività di famiglia.
Allora era normale aiutarsi a vicenda, specie in quei momenti in cui, oltre alla necessità di ricostruire, erano ancora molti gli uomini a mancare all'appello, come l'altro mio zio, il fratello di mio babbo, che, nonostante il congedo dai bersaglieri per motivi di salute prima della guerra, era stato richiamato nel ‘42 ed aggregato al corpo di occupazione in Grecia dove faceva da presidio. Per il riacutizzarsi dei suoi malanni, venne mandato in convalescenza proprio nei giorni precedenti l'armistizio e catturato dai tedeschi il 9 settembre 1943, sulla frontiera jugoslava, mentre rientrava in Italia. I tedeschi dirottarono tutti i treni, e tutti i soldati che quei treni portavano, verso i loro campi di concentramento. Di lui per moltissimo tempo si seppe solo che era prigioniero, perché anche dal campo continuava a scrivere a casa, poi più nulla. Noi però si continuava a sperare.
Ogni tanto venivamo avvisati dell'arrivo di un treno di reduci e si andava in stazione, sperando di vederlo scendere. E se non era lui a scendere, allora eravamo noi a rincorrere i reduci, affacciati ai finestrini, chiedendo da quale campo venissero, dove avessero prestato servizio, se l'avessero mai conosciuto, se ne avessero notizie. E se sembrava che qualcuno sapesse appena qualcosa, allora lo si invitava a scendere e, offrendogli da mangiare e dormire, si restava ad ascoltare i suoi racconti e ci si aggrappava alla speranza, rintuzzandolo sui dettagli. La fame era brutta e la strada verso casa ancora lunga, dunque forse qualcuno se ne approfittò, ma è in quel modo che ricostruimmo quel che era accaduto davvero: attraverso i militari che con lui, in treno e nei campi, avevano condiviso la stessa sorte, ma erano riusciti a salvarsi. Ci raccontarono che, facendo il barbiere e lavorando anche in infermeria, riuscì a cavarsela meglio degli altri nel rimediare da mangiare, ma che un nuovo sopraggiungere della sua malattia lo aveva colto proprio alla vigilia dell'arrivo degli Alleati e che morì una manciata di giorni dopo la liberazione, troppo tardi per poterlo aiutare.
Mia zia, anni dopo, andò più volte in Germania a cercarne la tomba, nel campo dal quale riceveva le lettere, assieme alle autorità militari inglesi che avevano decretato ufficialmente la sua morte. E i resti poi li hanno trovati, per riportarli a casa dal campo di concentramento e celebrare qui il funerale. Erano i primi anni Sessanta, c'erano tutte le autorità e più di un migliaio di persone. Non perché fosse conosciuto, ma per un senso di solidarietà comune con quella tragedia. Ora mio zio, Lorenzo Della Rosa, riposa al cimitero di Riccione. (...)