Emilio, tenendolo sul petto nello stesso punto in cui era allora, mostra l'astuccio portaocchiali, ancora ammaccato, che gli salvò la vita deviando una pallottola tedesca in uno scontro a fuoco nel settembre 1944. Lo conserva tuttora, come se fosse una "reliquia".
Segue un estratto dal suo racconto, dal primo contatto con i soldati alleati, il 24 agosto 1944, alla scelta, quasi imposta in qualità di comandante del distaccamento partigiano nella zona di Fossombrone, di seguirli come interprete, continuando a partecipare ai combattimenti. Tra i suoi ricordi c'è l'episodio rocambolesco del portaocchiali che gli salvò la vita, ma anche la testimonianza di quanti attorno a lui fossero stati meno fortunati, soldati ma anche amici, ed una riflessione sull'amarezza della guerra, sul dover uccidere il nemico per non esserne uccisi, senza mai dimenticare che "quando non ero minacciato, quel nemico tornava ad essere un uomo, un povero disgraziato come me".
(...) Il 24 agosto 1944 prendemmo contatto con gli Alleati, per la prima volta, nella zona attorno a Isola di Fano. Erano polacchi, bersaglieri italiani ed ex-partigiani della Brigata Maiella che dal sud si erano aggregati al corpo di liberazione nazionale sotto il comando inglese. Con loro combattemmo fino al Metauro. Un partigiano che li aveva accompagnati fin da Ancona stava in cima alla fila e ci disse subito di levare i fazzoletti rossi che tenevamo al collo. Avremmo urtato i polacchi. Ce l’avevano con i comunisti. E noi obbedimmo. Allora ci unimmo a loro e ci dirigemmo verso il fiume a cui gli Alleati volevano arrivare. Alcuni partigiani si erano sparsi attorno alla nostra fila ed io, in sahariana e pantaloncini corti, armato solo della mia pistola, ero salito su un autoblindo polacco. Arrivati davanti al fiume, si fece avanti un tedesco che tirò verso l’autoblindo una bomba a mano. Catturato, venne preso in consegna da due partigiani e dal polacco che accanto a me sull’autoblindo teneva la mitragliatrice. Quindi io, procedendo con quel mezzo verso il fiume e vedendo i tedeschi scappare da un pagliaio sull’altro lato, iniziai a sparare. Nella concitazione e senza alcuna esperienza, diressi tutti i proiettili insieme (traccianti, perforanti e dirompenti) verso il pagliaio che prese fuoco e un bossolo mi finì addosso, dentro la maglia, scottandomi. Non ne potevo più dal dolore, ma nemmeno smettevo di sparare. Tornati indietro per metterci al riparo, eravamo comunque sotto il fuoco dei tedeschi. Loro erano più in alto di noi e ci colpirono con una scarica di mitraglia. Allora i due volontari italiani arrivati coi polacchi, come due Arditi, salirono a stanarli. Poi incontrai gli inglesi, quello stesso giorno. Di loro mi colpì la disciplina. Venni convocato dal comando generale inglese, che si era stanziato a Isola di Fano. Cercavano me, in qualità di comandante del distaccamento di partigiani. Mi parlò un ufficiale inglese, in perfetto italiano: «Guarda, sono le quattro e un quarto. Avvisa tutti gli altri partigiani. Avete carta bianca fino alle quattro e un quarto di domani. Ventiquattro ore. Potete fare qualsiasi cosa. Qualsiasi. Ma poi dopo, basta. E ci consegnate le armi.» Gli inglesi stavano cercando di evitare con noi quel che era avvenuto in precedenza a Foligno, dove i partigiani di Montenerone erano scesi e, incontrati gli inglesi, non volevano farsi disarmare: «Io non te lo do il mitra. Io ci ho combattuto in montagna.» Ne erano sorte discussioni accese e anche sparatorie, un vero quarantotto. Io comunque accettai. E in quelle ventiquattro ore non successe quasi nulla (a Milano invece, dove ebbero un mese di carta bianca, fu ben diverso). Quindi, in serata, il colonnello mi mandò a chiamare e mi vennero a prendere in jeep. Ricordo che nel tragitto a bordo persi il portafogli, che poi mi venne restituito ancora con tutti i soldi al suo interno (erano 48mila lire, che poi consegnai al Comitato di Liberazione Nazionale). Mi dissero che avrei dovuto seguirli come interprete: «Se sei partigiano, devi partecipare alla liberazione.» Non avevo scelta. E così feci, ma senza nemmeno il tempo di salutare ed avvisare la mia famiglia. Partii subito, aggregato ad un loro corpo d’assalto, quello sbarcato ad Anzio il 22 gennaio 1944: il “riconoscence corp” (che loro confidenzialmente chiamavano “ricky corp” e che, da allora, il giorno della ricorrenza dello sbarco, infila una foglia di quercia sul berretto nero). Io in realtà un po’ d’inglese studiato a scuola lo sapevo, ma la pratica era un’altra cosa. Loro parlavano tutti i loro dialetti e ci capivo poco, ma poi me la sbrigai. Fui molto utile, perché feci arrestare diverse spie e tedeschi che si travestivano da contadini. E, nei momenti di svago, riuscivo anche a giocarci a carte o correggevo gli accenti quando erano loro a tentare di parlare italiano. Dunque procedetti con gli inglesi oltre il Metauro. E partecipai ai combattimenti, anche quelli sopra Fossombrone, in cima al mio paese. A San Piero mi ricordo che un nido di tedeschi ci sparò mentre transitavamo in autoblindo sulla strada. Saltando fuori, mi appostai dietro al mezzo. Un sergente scozzese rimase a bordo. Altri quattro si sparpagliarono. In quel mentre, i tedeschi spararono con quella che chiamavano la “sega di Hitler”, una mitraglietta leggera (di latta, salvo le parti dove passavano i proiettili) che sparava venti colpi così ravvicinati da farne sembrare uno. Ed uno di questi, rimbalzando sull’autoblindo, mi prese di piatto. Fu come essere colpito da un pugno, forte. E incredulo mi accorsi che la pallottola era rimasta schiacciata nel portaocchiali che tenevo infilato, all’altezza del cuore, in una tasca della sahariana (quel portaocchiali ancora lo conservo, come una reliquia). Mentre i miei compagni erano a terra, le armi al suolo, corsi indietro fino alla casa di un contadino per scoprire da dove fossero venuti i colpi: «Quella terra lì è mossa! Ma se la terra è fresca, che ci stanno a fare quelle piante?» Il contadino mi confermò che fino a poco prima non c’erano. Allora corsi di nuovo fuori e, preso un Brent lasciato da un compagno, rivolsi il fuoco del mitra in quella direzione per difendere gli altri, stesi feriti a terra. Poi mi mossi verso il nido dei tedeschi, ma, cercando di aggirarli, passai per una vigna. Ricordo gli sfollati che correvano a gruppi di 5-10 persone, tentando di non essere coinvolti. Intanto lo scozzese, dall’autoblindo, rispondeva a cannonate. Ed anch’io tornai a far fuoco. Riuscimmo così a stanarli e salvarci. Al termine il sergente scozzese, scherzando nella sua lingua, mi disse: «Emilio, ho avuto il brivido della morte!» L’ufficiale che ci seguiva con gli altri soldati (lo ricordo bene, era di madre francese e padre inglese) mi disse, quella stessa notte, che all’indomani avrebbe steso il verbale di quell’azione (la fanteria, nell’ispezione del nido, aveva trovato i cadaveri di nove soldati tedeschi). Non fece in tempo, però. Il giorno dopo morì in un’azione di guerra. Si, ho ucciso. E’ vero. E’ un tema che mi tocca profondamente. Ma io non ho mai ucciso a sangue freddo, perché sono contrario alla violenza ed alla morte. Ho ucciso solo in combattimento, rispondendo alle imboscate del nemico. E quando non ero minacciato, quel nemico tornava ad essere un uomo, un povero disgraziato, come me. Questo non l’ho mai dimenticato. Fu allora che potei avere una motocicletta per correre a salutare i miei genitori, spiegare tutto, e poi, trascorsi due giorni, tornare con gli Alleati avanzati nel frattempo di 4-5 chilometri. Al ritorno gli ufficiali inglesi mi consegnarono una medaglia di bronzo. A me e all’ufficiale scozzese. Ma io rifiutai: «Io sono partigiano! Non ho gradi e non voglio medaglie!» Infatti non avevo mai voluto cucire nemmeno i gradi sulla camicia che mi avevano assegnato. Devo ammettere, però, che col tempo me ne sono pentito, perché in quella stessa azione era morto un mio compagno partigiano e quella medaglia avrebbe ricordato il suo sacrificio. Era stato colpito da una granata, poco lontano da me, mentre ci stavamo difendendo dal primo attacco dei tedeschi. Ricordo che, in quel frangente, gli inglesi mi dissero: «Amico finito! Amico finito!» Io, invece, intesi ferito e proseguii l’azione. Quando poi tornai indietro, lo trovai riverso sulla strada e non potei fare altro che salire sull’autoblindo, prendere una coperta e ricoprirlo. Poi fu durissimo dirlo ai genitori che erano sfollati lì vicino. Per loro fu un dolore enorme. (...)
|