La Città Invisibile - Il Diario di Rodolfo

Alcune delle pagine tratte dal diario di guerra di Rodolfo, la cronaca degli eventi bellici sulla Linea Gotica e sulla fascia costiera da Cattolica a Rimini, dattiloscritta nel 1944 alla colonia marina Piacentina di Misano Mare, nella quale si era rifugiato da Rimini assieme alla madre e al fratello minore.

Segue un estratto del suo racconto, che si conclude con una riflessione sul bisogno, allora, travolti dalla guerra, di osservare, passarsi voce, conoscere quel che stava accadendo anche solo a pochi chilometri di distanza e, allo stesso tempo, ma capendolo solo in seguito, sull'essere indotti a trascriverlo con uno stile scarno e militaresco, quasi sacrale, come come i bollettini di guerra che in precedenza si era abituati, ed obbligati, ad ascoltare. Nell'estratto Rodolfo ricorda anche la sosta presso la colonia di un gruppo di deportati ("traditori, ebrei, badogliani, inglesi fuggiti dai campi di concentramento") scortati da militari tedeschi ed ausiliarie italiane verso la Germania e l'incontro con Rino Molari prima di scomparire, anche lui, improvvisamente (insegnante alla scuola media di Riccione, venne catturato dai fascisti locali, il 27 aprile 1944, per il suo impegno nella Resistenza, torturato al carcere di Bologna e fucilato nei pressi del campo di concentramento di Fossoli, il successivo 12 luglio, assieme ad altri 66 martiri). Infine Rodolfo non dimentica la convivenza, tanto drammatica quanto comica a volte, per farsi coraggio, con i bombardamenti, con quell'evento eccezionale che, agli occhi di un ragazzo come lui, pareva "il circo della guerra".

 

Rodolfo a 10 anni(...) I tedeschi avevano il loro comando militare (della contraerea, la FLAC, o della marina, non ricordo bene) dove c’era una volta il Saviolino, in quella villa sui colli tra Riccione e Misano che ora è divenuta una casa di riposo. Da lì i soldati scendevano fino alla colonia per fare il bagno. Si spogliavano tutti nudi e si buttavano in acqua, lasciando sulla spiaggia divisa ed armi. E, quando circolava la voce di una retata delle SS per raccogliere civili da inviare alla Todt (nella migliore delle ipotesi), allora mio zio, che era giovane, biondo con gli occhi azzurri e conosceva il tedesco, talvolta si buttava in mare pure lui, in mezzo a loro, per non correre rischi. Grazie all’attività di marinaio e al tesserino che ci avevano rilasciato, i tedeschi del locale comando gli riconoscevano una sorta di immunità per il ruolo di approvvigionamento alimentare che aveva nei confronti della popolazione. Anche questo però, nel caso di una pattuglia tedesca proveniente da fuori e in missione di rastrellamento, poteva non bastare. Non c’erano ragioni per nessuno, se i tedeschi avevano deciso di portarselo via.
Io allora già sapevo della possibilità di essere deportati in Germania. La prima volta che mi accadde di sentirne parlare fu durante un episodio drammatico che ci toccò da vicino. Alla colonia marina, in piena notte, arrivarono una serie di autocarri verde scuro scortati da due Volkswagen scoperte. Su quest’ultima, quattro ausiliarie italiane dell’armata tedesca, donne in tuta mimetica e armate di tutto punto, fecero strada ai soldati tedeschi per requisire la colonia. Dai portelli degli autocarri uscirono i prigionieri: molti in abiti civili, uomini, alcune donne, qualche ragazzino, altri in divisa italiana e qualcuno in altre che non riconoscevo. Mia nonna chiese chi fossero. «Traditori, ebrei, badogliani, inglesi fuggiti dai campi di concentramento», risposero e li sistemarono per la notte nelle camerate della colonia. Quando ci ordinarono di portar loro da bere, avemmo l’occasione di vederli da vicino e uno, in divisa italiana, mi disse di far sapere in giro che il generale Ascoli e i suoi soldati erano stati lì, quella notte, e che li stavano portando in Germania. L’indomani, al mattino presto, ripartirono. Diretti “verso destinazione ignota”, come si diceva allora.
Anche a me capitò una volta di essere preso dai tedeschi per andare a costruire uno dei loro fortini. Per strada. Perché era normale che avvenisse. Alle persone, agli animali, ai mezzi. Ai tedeschi mancava tutto, quindi si prendevano tutto quello che trovavano, se e quando ne avevano necessità. E a noi, quel che ci veniva preso, non si sapeva se e come sarebbe tornato indietro. A me avvenne con la bicicletta. Ci ero venuto da Misano fin qui a Riccione, per andare al cinema Odeon, allora l’unico aperto. All’uscita era sparita. Se l’erano presa i tedeschi. Insomma, si circolava per le strade a proprio rischio e pericolo. Si cercava di evitarlo.
Altre volte, a sparire erano le persone. In quei mesi conobbi anche Rino Molari, che era insegnante di lettere alla scuola media “Manfroni” di Riccione. Aveva fatto amicizia con mio zio e assieme si andava a caccia di storni. Sul fiume Conca, con le reti. Mica con i fucili, quelli da tempo non si potevano più tenere. Dalle parti dell’attuale circuito “Santamonica”, mio zio aveva una “tesa”. Si partiva prestissimo, tra le quattro e le cinque di mattina, in bicicletta. E ogni tanto veniva con noi questo giovane di 30-35 anni, abbastanza silenzioso, anche lui appassionato di caccia. In realtà, a nostra insaputa, veniva a prendere nota e a verificare le fortificazioni costruite dai tedeschi, contando sul fatto che in campagna c’era molto meno controllo. In uno di quei nostri ritrovi, in partenza per la tesa, raccontai anche a lui del messaggio lasciatomi dal soldato prigioniero, quella notte che i tedeschi occuparono la colonia. Si fece attentissimo e ancora più taciturno quindi, d’un tratto, ci disse che non gli interessava più veder cacciare gli storni. Se ne andò in bicicletta. E non lo rividi mai più. Solo molto più tardi seppi che era stato fucilato a Fossoli.
A Riccione, inoltre, i pericoli venivano anche dalla presenza di molti repubblichini, nonostante che io fossi amico di uno tra loro. Erano dei volontari, molto giovani, credo fosse la brigata Mameli, forestieri, a cui piaceva giocare con le bombe a mano. La popolazione li temeva molto, perché si facevano spesso prendere la mano con oltraggi gratuiti che seminavano astio e zizzania.
Eppure, non tutti i repubblichini erano così sprezzanti con chi non stava dalla loro parte, con gli italiani che non si erano schierati con Mussolini e i nazisti. So del primo marito della mia compagna, ad esempio, un Fabbri di Riccione, che si arruolò con loro, perché non ebbe scelta. Quando l’8 settembre il suo plotone sull’Appennino si dissolse, lui riuscì a tornare a casa. Poi, pur restando nascosto, per costringerlo a consegnarsi e ad arruolarsi nell’esercito repubblichino (non quello di stanza qui a Riccione), i comandi presero in ostaggio suo padre e allora lui non poté che presentarsi.
Avveniva veramente di tutto, ogni giorno. Eppure noi eravamo dei ragazzini e non ne avevamo paura. Ci sembrava di vivere dentro un grande circo. Così ci scappava talvolta anche da ridere, per le situazioni in cui venivamo a trovarci. Quando bombardavano, ad esempio, ci era stato detto di buttarci per terra appoggiandoci sui gomiti, con le mani dietro alla nuca e la pancia sollevata da terra, in modo che un eventuale spostamento d’aria potesse filtrare nello spazio vuoto sotto il corpo. Mia nonna, però, era corpulenta e con la sua stazza non era in grado di tenere quella postura. Allora, per aiutarla a sostenersi, giravamo tutti con un bicchiere su cui avrebbe, in tal caso, appoggiato il ventre. E, nonostante tutto, ogni volta che eravamo costretti a passarglielo, ci sembrava davvero molto comico.
E’ che solo così potevamo riuscire a vivere meglio anche gli aspetti drammatici di quel circo: i sequestri di civili da parte dei tedeschi, gli uomini che si rifugiavano in montagna per fare i partigiani, le morti improvvise di cui ci arrivava notizia o a cui ci capitò di assistere, anche di persone che conoscevamo.
E c’era da convivere con le bombe. Cadevano anche qui, verso il fiume Conca. Lasciavano crateri a terra che andavano dai cinque ai dieci metri. Quanto fossero profondi dipendeva dal tipo di terreno su cui cadevano, perché se avveniva sulla sabbia allora poi questa ricadeva su sé stessa. Noi ragazzi, subito dopo un bombardamento, correvamo al fiume a raccogliere schegge e proiettili per le nostre raccolte. E se ne giungeva un altro a sorprenderci, ci buttavamo tutti dentro le buche scavate da quelli precedenti, pensando che le bombe non avrebbero potuto cadere due volte nello stesso punto. Non era vero nulla, ma era una piccola bugia che serviva a farci sentire più al sicuro.
Attorno a noi tutto pareva eccezionale. Io, di questo periodo e di quello che seguì con l’arrivo degli Alleati, annotavo tutto, girando sempre con un taccuino. Tutto quello che vedevo, tutto quello che mi dicevano, io lo scrivevo. E, quando scorgevo gli aeroplani arrivare, salivo sul tetto della colonia. Era alta tre piani e più su ancora c’era un piccolo casotto che fungeva da acquedotto. Mi arrampicavo fin lassù con un binocolo e restavo ad osservare i movimenti degli aerei o le bombe che arrivavano dalle navi al largo («Guarda, hanno buttato giù il campanile di Misano Monte!»), prendendo nota di tutto. E tutti, ogni volta che passava una persona sulla strada, cercavano sempre di imbroccarlo per farsi raccontare quel che aveva visto e saputo. Poi, con la macchina da scrivere che avevamo in colonia, ribattevo gli appunti presi a mano e stendevo la cronaca degli eventi bellici con uno stile scarno e militaresco, quasi sacrale. Solo più tardi mi sono reso conto che questo mio diario dei bombardamenti aveva lo stesso stile dei bollettini di guerra che, in precedenza, ero ed eravamo tutti abituati ad ascoltare. C’era una forma molto rigida e noi, in quelle imposizioni, ci eravamo cresciuti, come ad esempio l’obbligo di alzarsi in piedi ogni volta che la radio trasmetteva un comunicato di guerra. La pena per chi non si adeguava era uno schiaffo plateale, davanti a tutti. (...)