La Città Invisibile - Dall'alto nel 1943

Rimini venne colpita dall'aviazione alleata per la prima volta il 1° novembre 1943, lasciando sul terreno 68 vittime, dando inizio ad una lunga serie di bombardamenti (quasi 400, fino all'ultimo del 30 settembre 1944, questa volta da parte tedesca) che distrussero, al termine della guerra, l'82 % dei fabbricati (la percentuale più alta tra tutte le città italiane con più di 30mila abitanti). A fine gennaio 1944, quando i bombardamenti cominciarono ad estendersi anche al circondario, a Rimini erano rimaste solo 3mila persone su 40mila abitanti, costringendo gli altri a sfollare verso un qualche rifugio più sicuro, nelle altre località della costa o risalendo valli e colline, trascinandosi beni e animali.
La fotografia del bombardamento di Rimini venne scattata, da un'altezza di oltre 7mila metri, il 30 dicembre 1943 alle ore 14 circa, dalle "fortezze volanti" americane (i quadrimotori Boeing B17) durante un'operazione su obiettivi ferroviari. Questa foto, a suo tempo, divenne famosa in tutto il mondo, venendo pubblicata su quotidiani e periodici, entrando addirittura nei manuali dell'aviazione americana, come "esempio (?) di precisione nei bombardamenti".
Già prima dei bombardamenti, gli aerei alleati scattavano fotografie dall'alto di ricognizione sul territorio. Una di queste ritrae Riccione, il 27 agosto 1943: sotto la ferrovia le borgate Alba, Marina e Abissinia sono ormai congiunte tra loro, pur restando immerse nella ricca vegetazione; a monte della ferrovia si distinguono la chiesa di San Lorenzo, il cimitero, viale Ceccarini e il nucleo storico del Paese, le case popolari su via Diaz per i terremotati del 1916 e quelle, ancora isolate, del viallaggio Donna Rachele, infine la centrale elettrica.

Seguono tre estratti dai racconti di Teresa e Germano (che hanno vissuto, entrambi in prima persona, il primo bombardamento e quelli successivi fino allo sfollamento, rispettivamente, a Verucchio e Poggioberni) e da quello di Paolo (che li vide da Coriano e nel cui podere i tedeschi installarono poi una postazione contraerea, oggetto a sua volta delle bombe alleate).
Nota: le foto di Rimini provengono dall'Imperial War Museum di Londra (riprodotte in "Rimini distrutta" di Luigi Silvestrini, Comune di Rimini, 1965), quella di Riccione dalla Fototeca dell'Istituto per i Beni Artistici Culturali e Naturali della Regione Emilia Romagna ("aereo-fotogrammetria della Royal Air Force del territorio riccionese, da Fogliano all'Abissinia, 27 agosto 1943" - 235 46 3PG 0915. F/24. 28.500).  

 

Teresa a 8 anni(...) Io, paura, iniziai ad averne ancora prima dei bombardamenti, già all’epoca del coprifuoco, fin dall’inizio della guerra: ad una certa ora, di sera, quando faceva buio, non si poteva più uscire di casa e per le strade passava la ronda, con tre uomini in divisa che giravano a piedi a controllare che non ci fosse più nessuno in giro, che non filtrassero luci accese dalle finestre chiuse e che nessuno ascoltasse la radio. Io e mio fratello stavamo fuori a controllare quando arrivassero, così da poter poi correre ad avvisare i miei genitori.
Le luci in casa dovevano essere “azzurrate”: mia madre aveva ricamato un cesto blu attorno alla lampadina della cucina. E gli aerei hanno iniziato a volarci sopra fin da subito.
Poi, quando giunse l’8 settembre del ‘43, ricordo i soldati italiani allo sbando, che giravano per le strade e bussavano alle porte, specie nel nostro quartiere, tra via Venerucci e via Montecavallo, dove era più facile trovare appoggio. Cercavano da mangiare e soprattutto abiti borghesi per non essere riconosciuti come militari. E mia madre e l’Adriana, la donna di servizio, cucinarono per molti di loro e diedero via diversi vestiti di mio babbo.
Noi, in fondo, continuavamo ad essere privilegiati e non soffrivamo gli stenti, né la fame. Quelli vennero dopo.
Del periodo che segue, almeno finché restammo a Rimini, non ricordo tedeschi, ma solo delle gran camicie nere che giravano per il centro e quanto noi le temessimo. Poi, il 1° novembre di quell’anno arrivò il primo bombardamento, preceduto dalle sirene che nelle strade avvisarono del pericolo e di porsi al riparo. L’allarme, prima di allora, per molto tempo aveva suonato pressoché tutte le notti. Si andava a dormire quasi vestiti. Mia mamma ci aveva cucito una cintura, dove ciascuno di noi poteva nascondersi un po’ di soldi e un po’ d’oro, così che non fossero tutti addosso alla stessa persona. E avevamo ognuno una sua borsina. Io portavo con me, sempre dietro, anche la mia bambola. Si andava su di corsa dai nostri zii in via Raganella, in un gran magazzino con il giardino attorno, anche 2-3 volte nella stessa notte. Con nostro fratello di pochi mesi. Ci sembrava che, salendo verso la periferia, potessimo essere più al sicuro. Invece poi, una volta, al Mulino Canaletti morirono tantissime persone. Oppure andavamo nella zona attorno ai pompieri di via Dario Campana ed anche qui era pieno di gente.
Ad ogni modo, finché non arrivò il primo vero bombardamento, per noi bambini era quasi un’avventura e ci divertivamo come se fosse un gioco.
Quel 1° novembre del ‘43 io ero a casa con mia mamma. Con i primi scoppi iniziai ad urlare e poi svenni, cadendo a terra. Da quella volta ho il terrore dei botti. Passato il bombardamento, i miei genitori vietarono a noi bambini di andare in giro per le strade. Mio babbo ci raccontò di aver trovato supina al suolo una donna in piazza Mazzini, proprio vicinissima a dove eravamo noi. Sembrava dormisse e invece, girandola, aveva tutte le viscere che le uscivano dall’addome. Era stata uccisa dallo spostamento d’aria. Questi racconti mi rimasero molto impressi perché da quel giorno ebbi una paura ancora più grande, enorme.
Quando i bombardamenti divennero più frequenti, allora scappammo verso Verucchio, in campagna, dai nostri contadini. Vennero a prenderci con il biroccio e portammo con noi la nostra camerina e il mio pianoforte. Secondo mia madre, io non dovevo smettere di studiarlo. E invece poi finì che ce ne stavamo sempre a correre a piedi scalzi sui campi.
A Verucchio eravamo sistemati in due camere: in una dormivano i miei genitori; nell’altra, in un letto doppio unito assieme, stavamo io e mio fratello Piergiorgio, assieme all’Adriana. Sotto la nostra stanza c’era la buca dello stabio (del letame) e ancora ricordo la puzza.
Poi, il 28 dicembre, i bombardamenti a Rimini colpirono anche casa nostra, per la prima volta. Fu il bombardamento più terribile. Iniziò in tarda mattinata e durò per ore e ore. Io ero a scuola a Verucchio, i vetri tremavano fino lì, così uscimmo per restare a vederlo dalla collina. Mio babbo, invece, era ancora a Rimini, perché, nonostante tutto, si teneva il negozio aperto. Passate le bombe, mia mamma scese a cercarlo assieme all’Adriana, in bicicletta, e arrivarono che era già notte inoltrata. Casa nostra era rimasta scoperchiata, allora entrarono per cercare di raccogliere quel che potevano. O quello che, in quel momento di disperazione, nonostante lo scempio, sembrava essere più importante e ci avrebbe ridato morale: un po’ di panni per l’inverno, il cestino di lavoro, la mia bambola.
Nei giorni successivi mio babbo fece venire un’impresa, perché richiudesse il tetto, finché, con il bombardamento del 18 luglio del ‘44, fu tutta via Venerucci a venire praticamente giù. Non restò nulla. E di casa nostra era rimasta in piedi solo mezza porta, con il nome sopra. Mio babbo disse: «Ci prendono anche in giro.» (...)

 

Germano a 6 anni(...) Ed i tedeschi arrivarono anche a Rimini. Erano le truppe, dirette verso sud. Ed iniziò pure l’oscuramento: d’inverno dopo le sei e d’estate dopo le otto. Tutto spento e non si doveva più circolare. Le città erano buie e silenziose. In giro c’erano solo i tedeschi e anche qualche repubblichino.
Inizialmente non ci furono problemi. Non erano cattivi i tedeschi, quelli dell’esercito. Ricordo che molti italiani andavano a lavorare per loro. Gli mettevano sul braccio una fascia bianca con la scritta “Todt” in nero e li portavano a costruire i fortini militari.
Di questi fortini, ne ricordo uno enorme, sull’angolo di via Pascoli. Era un immenso cubo tutto di cemento armato, con i muri molto spessi, le feritoie e le scale a zig-zag (per evitare che entrassero le schegge delle bombe). Dopo il fronte, ci volle moltissimo per demolirlo. Gli altri che ricordo erano proprio sul mare, tra le dune di sabbia che allora arrivavano alle case: uno tra via Pascoli e via Lagomaggio, un altro verso Bellariva (dove ora c’è l’hotel de Soleil). E sulla spiaggia non si poteva più andare, neanche per andare a prendere l’acqua salata (mentre prima la raccoglievamo con i secchi per farci, bollendola, il sale).
Quindi, il 1° novembre del ‘43, a mezzogiorno preciso, sentimmo gli aerei arrivare dal mare. Non ci facemmo caso fin da subito, perché gli aerei passavano già da prima per andare a bombardare in Toscana. Era come il rumore, lungo e monotono, di uno stormo di calabroni. Invece quella volta bombardarono da noi, proprio su Rimini. A Piazzale Kennedy, Villa Rosa, via Trieste e sulla stazione, come su una linea retta dal mare fino al centro.
Ricordo uno dei tanti altri bombardamenti che seguirono. Era il 26 novembre, una giornata plumbea e senza sole. L’allarme suono ancora verso mezzogiorno. Mia madre aveva fatto la polenta coi fagioli e l’aveva lasciata sul tagliere a stendere, per poi mangiarla a fette. E ciascuno ne prese una con sé, al momento di sparpagliarsi in cerca di un rifugio. Mio padre non voleva che ce ne andassimo tutti assieme, pensava che fosse più prudente per la famiglia restare divisa, piuttosto che correre il rischio che una bomba ci colpisse mentre eravamo nello stesso posto. Allora io scappai verso via Rimembranze e, mezzo chilometro dopo il passaggio a livello (più o meno dove ora c’è un garage), iniziai a sentire sopra di me il rombo di un aereo, dunque mi buttai nel fosso di scolo della strada (di quelli che oggi, con l’asfalto, non ce ne sono più). Ricordo che, oltre questo fosso molto grande, c’era un bosco di “cerasole” (di biancospino) tutto spoglio. E intorno a me iniziarono ad accalcarsi sempre più persone, tutti accovacciati, l’uno fianco all’altro. Accanto avevo un signore che conoscevo, un certo Guerrino.
In cielo, da dietro questo bosco, da sud stavolta, vedevamo arrivare le “fortezze volanti”: una ventina di quadrimotori che volavano molto bassi. Questi ottanta motori assieme facevano vibrare tutta l’aria e anche le nostre pance vuote. Sul muso distinguevamo la sagoma in plexiglass e intuivamo la figura del mitragliere dietro, di un altro sopra e poi un altro ancora più dietro. E potevamo vedere benissimo quando i portelloni si aprivano e le bombe venivano sganciate, perdendo la spoletta posteriore a forma di elica che faceva da innesco. Le bombe planavano nell’aria, risuonando con un fischio tremendo, sempre più forte. Il pericolo era quando venivano sganciate prima che fossero su di noi, mentre se invece lo avessero fatto proprio quando ci erano sopra, allora saremmo stati già fuori tiro e sarebbero planate e cadute più avanti. Ricordo che Guerrino continuava a chiedermi dove fossero e io, ad un tratto, gli urlai, «Guerrino, sganciano! Sganciano! Stavolta ci siamo!», perché le bombe si dirigevano verso di noi. E difatti quella volta colpirono via Praga, via Lagomaggio, le officine, la stazione, la ferrovia. E Guerrino, quando si rialzò dal fosso, aveva lasciato il buco della propria testa nella terra, da quanto ci si era incassato per la paura.
Noi ce la cavammo, ma bombe di quel tipo facevano crateri così grandi che ci stavano tre automobili di oggi, in larghezza e in altezza. E, anche se non si era stati colpiti, poi si accorreva dove si vedeva alzare il fumo. Così, ad esempio, io corsi subito in via Pascoli, dove avevo dei parenti, e per fortuna la loro casa era ancora in piedi. Poi, alla fine, noi della famiglia, ci radunavamo a casa. A fare la conta tra noi, a scoprire se eravamo rimasti tutti vivi. (...)

 

Paolo a 20 anni(...) Con lo sbarco degli alleati e l’armistizio, infatti, arrivarono i tedeschi ed iniziarono anche i bombardamenti su Rimini.
Il primo avvenne il 1° novembre, il giorno della festa dei santi, me lo ricordo benissimo. Io ero accanto al cancello del cimitero, vicino alla chiesa di Coriano. All’epoca non era come adesso: al posto dell’attuale campanile vi era il portone d’ingresso, al culmine di una lunga scalinata, e oltre la strada c’era l’entrata del cimitero.
Eravamo in tanti, tutti ragazzini, comportandoci proprio da incoscienti. L’allarme antiaereo era suonato anche a Coriano, ma non ce ne preoccupavamo più di tanto perché sapevamo di non essere, in quella zona, un obiettivo militare, che gli aerei sarebbero venuti dal mare per Rimini e che, anche deviando dal loro bersaglio, non ci sarebbero passati sopra. In ogni caso, al di là della consapevolezza di quel che sarebbe potuto accadere, era soprattutto la curiosità a tenerci lì. Quando cominciò, da dove eravamo in realtà si scorgevano solo gli scoppi, uno dietro l’altro, e il fumo, ma soprattutto sentivamo il fragore delle bombe e dei colpi da ottantotto millimetri della batteria antiaerea dal colle di Covignano (o delle Grazie, come dicevamo allora). Tutto questo, però, bastò a farmi capire che era meglio mettersi al riparo.
I bombardamenti proseguirono, terribili, anche in seguito e qualche mese dopo i tedeschi impiantarono una seconda batteria contraerea proprio a Coriano, vicino al nostro podere, tra via Scaricalasino e la via della Puglia, così che ci ritrovammo improvvisamente al centro di una zona militare, con tutto quel che ne seguiva: per poter andare a lavorare sul campo, ad esempio, ci avevano rilasciato un vero e proprio permesso, mentre la nostra strada ad un certo punto era stata sbarrata con una sentinella a sorvegliarla e a bloccarti se non ti riconosceva.
La batteria accanto a noi era nascosta in mezzo agli ulivi, montata su una postazione fissa, ma in grado di girare su se stessa. C’erano cinque “pezzi” (cioè cannoni) da ottantotto millimetri per i bombardieri e altri tre “pezzi” (mitragliere) da venti millimetri per i caccia.
Ogni pezzo da ottantotto era gestito da tre o quattro militari: ce n’era uno che prendeva il proiettile dalla cassa e lo infilava nella canna, un altro lo infilava nell’otturatore, un altro ancora tirava la cordicella per far partire il colpo. E solo in seguito ho capito come quelli non fossero comuni cannoni che sparavano a vista. Prima che partisse il colpo, serviva pure un goniometrista (o telemetrista) per dare agli altri soldati i dati sulla distanza e sull’angolo con cui registrare la canna. Da quei cannoni sparavano munizioni che chiamavano “shrapnel”, dei proiettili che in cielo si frammentavano in tanti pezzi più piccoli, come fuochi d’artificio, per aumentare la capacità di colpire gli aerei avversari.
Da quel momento le bombe iniziarono ad arrivare anche da noi. Cadevano dagli aerei una dopo l’altra, come una semina. Solo un paio di volte le ho viste cadere “a grappolo”, legate tre per tre. E queste ultime lasciavano voragini impressionanti: quelle che ho visto io erano larghe quaranta metri e profonde almeno cinque.
E le “checche”, i piccoli aerei da ricognizione alleati, certo che me le ricordo. I bimotori americani li chiamavamo i “velenosi”. Quando arrivavano, era meglio restare immobili perché sapevamo che ci avrebbero fotografati e poi sarebbero seguiti i caccia con le mitraglie.
Ricordo un episodio, mentre noi eravamo nell’aia, quando un gruppo di tedeschi, tutti a piedi e stralunati, come se fossero in ritirata, spuntò da dietro il curvone vicino a casa mia. Improvvisamente, dalla cresta tra Misano e San Clemente, comparve uno Spitfire che, volando rasente terra, iniziò a mitragliare sui tedeschi mentre questi cercavano di scamparla gettandosi nei fossi di scolo ai lati della strada.
I caccia non erano mica come i bombardieri. Questi ultimi volavano molto alti in squadriglie da una dozzina di aerei, riempivano il cielo con il loro rombo, come enormi calabroni, ed erano preceduti dall’allarme antiaereo. I caccia, invece, arrivavano da soli, senza preavviso, puntando sui bersagli al suolo e non si poteva far altro che gettarsi al riparo. (...)