La Città Invisibile - L'Introduzione del Libro
La Città Invisibile - Un dettaglio dalla copertina del Libro

Questo libro è la storia di un viaggio, nella guerra, compiuto da chi non l’ha mai vissuta.
Nasce da un progetto che ha avuto come scopo la raccolta di testimonianze sulla seconda guerra mondiale, scoprendo, come in un viaggio, lungo la strada, man mano che mi veniva ripetuto, che “per capire davvero la guerra bisogna esserci dentro e, per il vostro bene, spero che non vi accada mai”.
E questo libro è cresciuto di incontro in incontro, parola dopo parola, come i passi mossi lungo una strada preziosa, quella della memoria, altrettanto frustrata tutte le volte in cui “non si veniva creduti” o, peggio, vi si riservava indifferenza, come se nel ricordo si facesse labile il confine tra realtà ed immaginazione.
Eppure è successo. La guerra, qui, in Italia, in queste zone, è passata, drammaticamente. E questo non basta, per tutte le generazioni che sono seguite, quelle che hanno vissuto e vivono in un “presente permanente”, non basta a vivere anche questa memoria, condivisa, come un obbligo. Ma dovrebbe essere sufficiente a sentirsene responsabili, per tutti coloro che realizzano di essere cresciuti “liberi” piuttosto che “liberati”.

Per chi scrive, introducendolo proprio ora che lo si è portato a termine, questo libro è davvero la storia di un viaggio, rivolto inizialmente ad uno spettacolo teatrale, “Riccione Quarantaquattro”, curato nel 2005 dall’associazione ProgettoMiniera, e poi dilatato verso altre forme espressive (Internet) e collaborazioni (una nuova rappresentazione teatrale, “La Città Invisibile”, con l’associazione Maan Ricerca e Spettacolo) fino a confluire nel libro, che raccoglie le testimonianze a fondamento dell’intero progetto.
Nel corso di questi anni si è anche condiviso il materiale raccolto con la Scuola Media Statale “Manfroni-Cervi-Pascoli” di Riccione, per una ricerca degli studenti sul loro territorio che li ha portati a confrontarsi anche con i loro nonni.
Nel realizzare questo progetto sono stati utili i consigli ricevuti dall’Istituto Storico di Rimini, dall’associazione RiccioneTeatro, dall’editore Fulmino, ed è stato altrettanto fondamentale il sostegno del Comune di Riccione e di ogni altra realtà che abbia scelto di investire in questa iniziativa, così come si è rivelato indispensabile l’incoraggiamento di tutti coloro che, con l’azionariato popolare, hanno scelto di acquistare in anticipo il libro.

Per chi adesso ha occasione di leggerlo, si è tentato di fare di questo libro una mappa, come se, in un viaggio, ci si addentrasse, appunto, in un luogo sconosciuto, nella consapevolezza che tale rimarrà. O meno lontano, forse.
Il viaggio, ascoltato, ripreso e scritto assieme a ogni testimone, e ora letto, è nella guerra, ma prima ancora è nella città in cui i protagonisti e i luoghi di quei racconti rivivono e convivono, passato e presente insieme, una città che è tanto più ampia quanto più affollata è stata la loro vita, dove le strade maestre sono le scelte, le gioie e le paure, le passioni e le fatiche, volute o subite, su cui quelle vite sono state costruite.
E’ una città, invisibile, perché sta dentro alle persone, ed è invisibile, talvolta, perché sta sotto gli occhi di tutti. E nella distanza da essa, nella nostra indifferenza, misuriamo la nostra distanza dal mondo.
Nella città di ogni testimone c’è tutto quello che la guerra ha preso e insieme reso, qualcosa di inconcepibile per chi non l’ha vissuta, è vero. Se non è possibile raggiungerla e comprenderla, forse però possiamo avvicinarla per altre strade ugualmente presenti in ogni città, quelle della responsabilità del pane e della pace, che ci accomunano, ora come allora, e che ci spingono, ancora, a riflettere sulla guerra e sui motivi che vi conducono. Le strade che ci aiutano a non perdere la capacità di ascoltare. E di sentire.

La parte centrale del libro è dunque di memorie da diciotto testimoni che si incontrano, talvolta, proprio adesso su queste pagine, ma che tra loro condividono lo stesso presente nello stesso luogo, Riccione. Questo le ha portate, volontariamente o scelte, ad entrare in un libro nel quale, raccontando la loro guerra, le loro strade tornano a più di 60 anni fa e si divaricano, ripercorrendo i loro ricordi di soldati e mogli, ragazzi e bambini di strada. O di ebrei in fuga, come per Luisa. E queste strade, attraversando i bombardamenti devastanti su Rimini, passano il fronte di guerra a Riccione, da ambo i lati su cui si fermò per due settimane nell’unica estate senza ombrelloni, oppure sfollano cercando riparo verso nord, nelle colonie marine, nell’entroterra o nelle gallerie di San Marino, o è come se fossero sempre al fronte, come per i partigiani Dino, Ennio ed Emilio, o come se non passasse mai, perché è così che accade per Athos e Goffredo, entrambi deportati.
La guerra arriva come un gorgo, che inghiotte affetti, case, animali, che lascia tracce più o meno vivide. E pure questa è una memoria, terribile, della guerra che si è voluta conservare: quella di una vita legata al caso, di scelte indelebili (dove sfollare, come nascondersi, un’arma raccolta per gioco, scampare ad un colpo di mitraglia, alle schegge di una bomba o ad un campo minato) dalle conseguenze imprevedibili.
Se la guerra in casa, ad un certo momento, per tutti era parsa inesorabile, nel raccoglierne le memorie si è scelto di ascoltare anche i segni e le storie che l’avevano preceduta, le proprie e quelle della propria famiglia, per cogliere le avvisaglie del piano inclinato che ci aveva portato.
Trascorsa la guerra, caduto il regime fascista, persone e luoghi, speranze e progetti, non potevano più essere come prima. C’era da ricostruire, da trasformare una nuova realtà, “con vestiti e case rabberciate, di un colore assieme ad un altro e ad un altro ancora”, in un mondo che si risollevava. Si è chiesto anche questo, cosa era stato poi delle loro vite, passando dagli anni degli stenti a quelli del boom economico, più o meno fortunati o previdenti, gli anni dei consumi di massa, dello svuotamento delle campagne e dell’urbanizzazione in cui Riccione crebbe dagli 8mila abitanti del 1936 ai quasi 30mila di 25 anni dopo.
“Poi negli anni Sessanta è cambiato tutto”, anche questo mi è stato detto più volte. La Riccione già turistica in cui parlare in italiano piuttosto che in dialetto era segno di distinzione sociale e serviva a farsi capire dai forestieri che venivano ad affittare per la stagione estiva, ora non è più nemmeno quella in cui, come ha raccontato Renzo, “se in casa avevi grano, mele, vino, patate e legna per tutto l’anno, allora potevi stare tranquillo”. Cambiano i negozi, cambia il turismo, cambia il territorio, cambiano le persone. E per chi è cresciuto dopo quegli anni, allora entrare in queste memorie significa levare dal proprio orizzonte edifici, oggetti, abitudini, ripercorrendo a ritroso le parti conclusive dei racconti che più hanno approfondito questo passaggio.
Essere parte di questo libro accomuna, adesso, ciascuno dei testimoni, come nel 1945 lo è stato uscire vivi dalla guerra, da una guerra mondiale, con un messaggio per se stessi, al mondo e a tutti coloro che sarebbero seguiti. E’ così che si è concluso ogni incontro: con un messaggio che arriva per parole e per immagini. Le parole sono quelle delle risposte date alle ultime due domande. “Che cosa pensa e sente, oggi, a vedere alla televisione le immagini di una qualsiasi guerra? Se potesse dire qualcosa alle generazioni che, ora, hanno l’età che lei aveva durante la seconda guerra mondiale, che cosa vorrebbe dire?” Alle parole si sovrappongono le immagini, le sei fotografie che ciascuno di loro ha scelto, dai propri cassetti, per raccontarsi e raccontare i motivi per cui è valsa la pena sopravvivere e da qui, dopo una prima fotografia d’epoca, inizia ogni testimonianza. A tali immagini, volutamente, non è stata aggiunta alcuna didascalia, perché, nel ritrarre famiglie, amici, impegni, passioni, sacrifici, rappresentano quanto di più universale possa esserci nel mostrare la ricchezza della vita, anche nel suo progredire, e al lettore, forse, il senso del suo tramandarsi.
Un’altra immagine, invece, caratterizza ogni racconto, perché, anche quando non proviene dalla vicenda del testimone, ne coglie lo spirito o, per analogia, porta al contesto che vi fa da sfondo: l’albero genealogico di Luisa che rimanda al destino dei suoi 21 familiari sterminati nei campi di concentramento; la mappa coi tragitti tra quelli di deportazione in Polonia e Germania per Athos e Goffredo; la foto scattata ora a Emilio con il portaocchiali, ancora ammaccato da una pallottola, che gli ha salvato la vita; quelle ricevute da Dino, nel dopoguerra, dall’aviere americano tenuto nascosto e protetto per 125 giorni; le pagine dai diari di guerra di Rodolfo e Umberto; una fotografia di Teresa sfollata a Verucchio, quella del fratello di Rachele mentre celebra messa davanti ai soldati alleati e di Guido soldato accanto ai suoi commilitoni; le parole lasciate sul retro di una fototessera dalla madre di Franco per il figlio; la foto scattata, oggi, al viale che a Rimini porta il nome del nonno di Germano e quella scattata sopra Riccione dagli aerei della RAF nel 1943, quando Renzo era un bambino di quattro anni, e un’altra, del giorno in cui Domenico è diventato padre; l’elenco dei caduti riccionesi, dove Ennio ritrova il suo; la mappa delle case e della scuola elementare lungo il Paese ai primi del Novecento, per Frangiotto, disegnata nel 1982 dagli allievi della stessa scuola, assieme alle loro illustrazioni della cucina e della stanza da letto dei bisnonni che probabilmente non erano molto diverse da quelle a casa di Tino e di Paolo.

Questo libro è la mappa di un viaggio nella memoria di ogni testimone, nelle loro vicende ed opinioni, anche diverse tra loro, dove differente è la condizione familiare (artigiani, commercianti, industriali, mezzadri, albergatori, insegnanti, operai, impiegati) e dove differente è la relazione con la figura di Mussolini, specie per i riccionesi, proprio perché qui trascorse le vacanze dal 1926 al 1943, con la famiglia, acquistando nel 1934 una villa recentemente restaurata e contribuendo non poco ad aumentare la notorietà della località turistica.
A ciò va aggiunto che, come molti testimoni non hanno mancato di rimarcare, all’epoca, solo per fare qualche esempio, era vietato parlare di politica nei locali pubblici, che le notizie erano comunque filtrate dalla propaganda, che la tessera fascista era obbligatoria per partecipare ai concorsi pubblici e che esserne sprovvisti era una discriminante per tante altre professioni. Se, ancora nel 1943, alla vigilia della sua caduta, pur contando le cosiddette “tessere del pane”, erano oltre 24 milioni (su 46) gli italiani iscritti al partito, la vicinanza con Mussolini rende ancora più rilevante uscire dalla contrapposizione consenso/dissenso ed utilizzare la categoria interpretativa, più elastica, proposta da Philippe Burrin, articolando gli atteggiamenti individuali nei confronti del potere fascista lungo un arco dialettico che va da “accettazione” (distinta in rassegnazione, sostegno, adesione) a “distanza” (devianza, dissidenza, opposizione).
Riconoscendo la legittimità di ogni posizione, offrendone in qualche modo uno spettro, ed il contributo che ogni granello di sabbia può dare fermando la ruota della Storia, è altrettanto vero che il peso di questa ruota si abbatte anche qui, dopo essere sembrata per tanto tempo lontana e indifferente, e che tali conseguenze sono l’effetto di vicende molto più grandi della memoria individuale.

Le prime due sezioni del libro hanno quindi come scopo, seppur sinteticamente, quello di contestualizzare, precedendolo, il racconto della guerra vissuta da ogni testimone: su un piano storico, nella prima parte, e su un piano topografico, nella seconda.
In entrambi i casi, “Storia” e “Mappe”, si è scelto un approccio che dal generale scendesse al particolare: nel primo caso, dall’eccezionalità degli eventi su larga scala a quella altrettanto tragica dei bombardamenti prima e dello sfondamento della Linea Gotica poi; nel secondo caso, dalla mappa dell’Italia liberata a quella con il dettaglio di Riccione, “Perla Verde dell’Adriatico”, nel 1944, mostrando di seguito anche la progressione della sua urbanizzazione, altrettanto importante per rendere più comprensibile il volto di una città fortemente cambiata nel frattempo.
Tra i racconti che seguono, poi, ce n’è uno in particolare, quello di Luisa, nata a Trieste al tempo dell’impero austro-ungarico, testimone della contesa italo-jugoslava del dopoguerra, ebrea soggetta alle leggi razziali del 1938 e scampata allo sterminio di quasi tutta la sua famiglia, che, per la sua tragica eccezionalità di vittima predestinata, si è scelto di integrare con delle note storiche specifiche, così da rendere, attraverso la sua vicenda, più vicino il dramma suo, del suo popolo e di tutte le altre vittime dell’olocausto (slavi, prigionieri di guerra, dissidenti politici, zingari, portatori di handicap, omosessuali e soggetti “antisociali”).
Allo stesso obiettivo, quello di collocare le vicende individuali all’interno di un’unica vicenda collettiva, l’insieme delle testimonianze è seguito da un racconto per immagini e parole che ripercorre, nella trama e nell’anima di un intero paese, la tragedia della guerra, tanto negli effetti quanto nelle cause, laddove queste ultime spesso sono invisibili, allora come ora, qui e altrove, forse perché anch’esse sotto gli occhi di tutti.

Circa i riferimenti bibliografici e iconografici si è largamente attinto alle opere di storici, locali innanzitutto, che, con passione, costanza e precisione, hanno approfondito, nel corso di tutti questi anni, lo svolgersi dei fatti nella convinzione che la loro memoria non dovesse essere persa. L’auspicio, da parte mia, è stato lo stesso, spero con altrettanto rispetto delle loro opere e degli eventi.
Consapevolmente, ma non sommariamente, si è anche scelto di ricorrere, per alcune note più generiche, a Wikipedia: un’enciclopedia mondiale, disponibile gratuitamente su Internet, alla quale chiunque volontariamente può contribuire, inserendo o aggiornando le voci al suo interno (su cui, nell’interesse della comunità, vigilano gli amministratori) purché fondate e neutrali. Ad oggi, nell’aprile 2008, crescendo anno dopo anno, solo la versione italiana è arrivata a contenere 435mila voci. Si è scelto di segnalarla, pur con i suoi limiti, non perché fosse la via più breve nel reperire alcuni riferimenti, ma perché indice, in un mondo che cambia, di una condivisione “libera” della cultura basata su una collaborazione attiva e responsabile nell’interesse di tutta la comunità.

Nel concludere questo viaggio, un ringraziamento va a tutti i testimoni che mi hanno affidato la loro memoria e la loro fiducia, aprendomi le porte delle loro case e delle loro città invisibili.
Hanno attraversato e scampato un tempo in cui Himmler, ministro degli interni nazista, nel 1940, nella Polonia occupata, dopo averne chiuso le università e consentendo solo un’istruzione primaria e professionale di basso livello, scriveva che “gli unici compiti di questa scuola dovrebbero essere: aritmetica semplice fino a massimo 500; imparare a scrivere il proprio nome; insegnamento di una dottrina la quale prescriva che è legge divina ubbidire ai tedeschi ed essere onesti, industriosi e bravi. Non credo che saper leggere sia necessario. A parte questa, non devono esistere altre scuole a est”.
L’estate scorsa, nell’archivio della biblioteca Centro della Pesa, ho trovato una bellissima ricerca, “Riccione ieri e oggi”, svolta dalla classe seguita dalla maestra Annamaria Morri tra il 1981 e il 1983 presso la scuola elementare Riccione Paese. Ho pensato di potervi attingere, traendovi quattro immagini. Era accompagnata da un foglietto a mano: “la Maestra Morri, che quest’anno lascia la scuola per collocamento a riposo, vorrebbe che questo lavoro non andasse perduto”.
Questo libro ha una dedica pubblica, dove pubblica significa “nell’interesse di tutti”: alla Maestra Morri.
E ha una dedica privata, che è ciò che a questo viaggio mi ha portato. Alle mie nonne, Olga de Bulgnès e Stella ad Cucìr, per tutte quelle volte in cui mi raccontavano sempre le stesse cose, ed io non capivo perché. E ai miei nipoti, Luca e Agata, venuti al mondo in questi anni, per tutte le città, visibili e invisibili, in cui cresceranno.

Fabio